VORREI AVERE UNA CASA

Durante i giorni di questa difficile epidemia è frequente e facile vedere immagini di città vuote. Nei luoghi dove prima c’era frenesia e dove la città non smetteva mai di vivere adesso ci sono solo piazze deserte, strade del centro-città disabitate, negozi chiusi, stazioni ferroviarie prive del loro continuo movimento caotico. Tutti dentro casa a sperare che la libertà di fare, la normalità di vivere torni il prima possibile.

Alcune persone tuttavia hanno la casa proprio in quelle piazze, in quelle strade e in quelle stazioni: l’unico posto in cui potevano ripararsi e provare a immaginare un letto comodo, un pasto caldo e sicuro e una doccia.

Dove sono ora? Non possono affidarsi più nemmeno a quel poco che avevano perché l’emergenza, l’isolamento, le restrizioni li confinano ancora di più, li fanno perdere quell’unico posto sicuro che si erano creati. Il silenzio e il vuoto, che in questo momento difficile dovrebbero proteggere, per queste persone portano soltanto più paura e un maggiore abbandono.

Dov’è la mia casa?

In seguito al decreto del 9 marzo del Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, l’Italia si protegge con lo slogan “Io resto a casa”, ma cosa succede a chi non può farlo perché una vera casa non ce l’ha?

Migliaia di persone senza fissa dimora e migranti si sono visti abbandonati e dimenticati. Molte associazioni, centri di accoglienza e mense si sono trovati bloccati a causa delle scarse disponibilità di materiali necessari per combattere l’emergenza sanitaria, sprovvisti di strutture conformi a fronteggiare le nuove norme di distanziamento sociale.

Fortunatamente alcune di queste organizzazioni, in questo momento unico punto di riferimento possibile per chi non sa come affrontare le nuove disposizioni, continuano a restare al fianco di coloro che in questo momento si trovano ancora più soli.

Nella stazione ferroviaria di Roma Termini la cooperativa sociale Binario 95 trasforma il motto in “Vorrei restare a casa” e continua a fronteggiare l’emergenza a fianco di tutti i più deboli che stanno vivendo questa epidemia in un modo molto più complesso. Il centro diurno e notturno offre sostegno psicologico, docce  e attraverso l’Help Center offrono orientamento, autocertificazioni e kit igienico-sanitari.

Notevoli sono le iniziative della Caritas che grazie all’aiuto di volontari riesce a mantenere attivo il sostegno necessario, cercando di conformarsi alle nuove normative e restrizioni. I volontari più giovani continuano a prestare soccorso a chi in questo momento è più spaventato di tutti: iniziative per la distribuzione di abiti, coperte e pasti davanti alle mense.

Giuseppe Rizzo e Stefania Mascetti in un reportage sull’ Internazionale raccontano la storia di uno dei molti senzatetto in Italia che sono stati chiusi fuori a causa delle restrizioni, dell’attività di supporto e aiuto dei volontari della comunità di Sant’Egidio che non si fermano ma mettono le mascherine e continuano. Parlano di Omar che affronta la solitudine e il silenzio assordante di questi giorni nel quartiere San Lorenzo, chiuso nel suo sacco a pelo cercando di combattere l’ansia dormendo e fumando hashish.

Ci sono migliaia di storie nascoste tra le strade di un Paese vuoto, storie di chi vorrebbe stare a casa, passare il tempo sul divano ad annoiarsi, ma non può perché deve cercare un posto dove passare il giorno senza essere multato, un posto più sicuro dove passare la notte e provare a chiudere gli occhi, deve trovare un posto dove recuperare almeno un pasto.

Senza un porto sicuro

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) dichiarano congiuntamente che la risposta all’emergenza sanitaria deve prendere in considerazione e proteggere i diritti e la salute dei rifugiati e dei migranti.

Con il decreto del 7 aprile 2020 firmato dai ministri degli Esteri, dell’Interno, delle Infrastrutture e della Sanità viene dichiarato che “Per l’intero periodo di durata dell’emergenza sanitaria nazionale derivante dalla diffusione del virus COVID-19 i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di Place of Safety (“luogo sicuro”) […]”.

A tale dichiarazione viene fatta una premessa: vista la situazione di criticità di tutti i Servizi Sanitari Regionali e dell’ininterrotto lavoro dei medici e del personale sanitario per l’assistenza ai pazienti infetti, non sarebbe possibile rendere il territorio nazionale posto sicuro senza compromettere la funzionalità delle strutture sanitarie e di sicurezza volte al contenimento del contagio.

Si evidenzia ancora una volta come ci sono individui con priorità, superiori, e altri che invece vengono abbandonati al loro destino e lasciati in sospeso, a metà strada tra i lager di detenzione in Libia e lo spiraglio di salvezza che l’Italia potrebbe rappresentare permettendo almeno di sfuggire alla tortura. Il decreto, infatti, viene emesso mentre l’emergenza di migliaia di persone in mare non si frema.

Tutte quelle donne e uomini decidono di affrontare il mare non perché credono sia la soluzione giusta, ma perché è una delle poche che hanno per sfuggire da una situazione ancora più tragica e inarrestabile: nei centri illegali di detenzione in Libia la tortura, la fame, la paura non si fermano neanche con lo scoppio dell’emergenza sanitaria globale.

Durante l’epidemia per queste persone il tempo resta fermo, come sempre, ammassati tutti insieme senza nessuna considerazione o umanità. Uno scenario immaginabile e spaventosamente catastrofico sarebbe l’arrivo dell’epidemia in questi luoghi: il virus andrebbe a distruggere le ultime forze vitali e porterebbe una catastrofe irreparabile e mondiale.

Per tutti i più deboli, gli emarginati, non c’è un decreto specifico che possa proteggerli, non possono semplicemente restare a casa, hanno bisogno di non essere dimenticati, hanno bisogno di aiuto e di ascolto perché in tutto il silenzio che il Paese ha imposto per proteggere la vita dei cittadini, le loro voci restano. Quelle voci hanno bisogno di essere ascoltate, rassicurate e portate in un posto dove possano sentirsi non più esclusi, ma importanti e considerate.

Meritano l’attenzione e la solidarietà, l’umanità e la vicinanza che diventeranno la loro casa. Casa che in un momento come questo è ancora più desiderata.

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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