I NUMERI CHE NON TORNANO

La pandemia da Coronavirus ha colpito indistintamente in tutto il mondo. Più o meno in anticipo rispetto ai “competitors” globali, tutti i governi hanno dovuto ammettere la presenza dell’infezione nel proprio paese attivandosi per contrastarla. Ma quanto sono state tempestive le istituzioni? Quanto hanno inciso eventuali ritardi nel combattere il virus? Fino a che punto sono state oneste nel comunicare le loro informazioni alla comunità internazionale?

Il primo caso è ovviamente quello della Repubblica Popolare Cinese. Le ultime indiscrezioni parlano del virus circolante già ad Ottobre ai giochi militari di Whuan, come riportato da molti atleti. Le comunicazioni ufficiali del governo di Pechino all’OMS arrivano solamente dai primi di Gennaio, mentre adesso sappiamo che in Francia già a Dicembre alcuni decessi erano dovuti all’infezione respiratoria: segno evidente di un tentativo di censura da parte della Cina.

Possiamo individuare le motivazioni di questo atteggiamento nella natura politica della Cina. Pur essendosi aperta, dopo la fine del periodo maoista, ad una politica di soft power di portata imperiale (andando a stringere legami economico-finanziari con paesi di ogni continente) la Cina ha sempre ritenuto di non dover rendere conto a nessuno dei propri problemi interni, mantenendo saldo in questo caso l’insegnamento di Mao del “paese che cammina sulle proprie gambe”. Non stupisce quindi che anche la gestione di una (allora) potenziale epidemia sia stata ritenuta affare interno dal governo di Xi Jinping.

Date però il livello di altissima contagiosità del Covid19 il governo di Pechino è stato quasi costretto a collaborare con l’OMS e la comunità internazionale. Anche in questo caso però bisogna approfondire quanto successo. I numeri ufficiali parlano di 82.885 contagiati in tutta la Cina, con circa 4600 decessi. Una prima riflessione sorge spontanea: sono credibili numeri così bassi per il paese che per primo ha affrontato l’emergenza, avendo quindi molto meno tempo per organizzarsi? Certamente la natura dittatoriale ha permesso un controllo sulla cittadinanza molto più serrato e reso molto più agevole limitare le libertà degli individui, ma questo non basta a spiegare un’incidenza così bassa nel primo paese al mondo per abitanti (1,4 miliardi).

Un interessante articolo de “il sole24ore” spiega però come anche i dati forniti da enti diversi dal governo non possano essere del tutto affidabili in quanto di parte (in questo caso, “radio free Asia” con sede a Washington suggerisce una stima di 42.000 morti in tutto il paese), rientrando il classico schema geopolitico delle alleanze e degli schieramenti che, complici le reiterate accuse del governo statunitense nelle persone del presidente Trump e del segretario di stato Pompeo, hanno fatto parlare più volte di una “seconda guerra fredda”.

Ultimo tassello in ordine temporale risulta essere poi la polemica tra l’ambasciatore europeo in Cina, Nicolas Chapuis, ed il principale quotidiano del PCC in lingua inglese “China Daily”. Il giornale infatti avrebbe riportato un articolo dell’ambasciatore censurando un breve passaggio in cui si affermava (con ogni ragione) che la pandemia fosse cominciata e si fosse diffusa dalla Cina, senza peraltro attribuirne la responsabilità (in quanto il virus ha origini naturali) alla Cina stessa.

Il “vicino di casa” più ingombrante, ossia la Russia, aveva invece attirato l’attenzione dei mass media occidentali nel momento in cui la pandemia sia espandeva in Europa e negli Usa; infatti la “grande madre” sembrava totalmente immune dal virus, contando solo pochissimi casi importati.

Due mesi dopo la situazione è radicalmente cambiata. La sola Mosca conta più casi della Cina intera (più di 90.000), con un aumento percentuale dei casi in continua crescita, con il sindaco che parla addirittura di “possibilità di avere circa 300.000 casi”, cioè il 3% dei 12 milioni di abitanti della capitale.

In tutto il paese i casi confermati si avvicinano pericolosamente ai 200.000 e per la prima volta la popolarità del presidente Putin è in calo, con un consenso “appena” del 59%. Inizialmente quindi è possibile ipotizzare che “lo zar” abbia preferito mantenere una linea di riserbo sulla condizione sanitaria del suo paese, seguendo il modello cinese. Una possibilità ancora più concreta se consideriamo che i rapporti tra i due paesi sono ai massimi da anni, con relazioni economico-commerciali sempre più fitte ed un comune interesse ad imporsi come modello globalizzante opposto agli Stati Uniti.

Anche in questo caso dobbiamo considerare l’ipotesi che l’apparente invulnerabilità iniziale della Russia fosse frutto di una strategia politica volta a dare un’immagine del paese come potenza sanitaria: un paese cioè pronto ad assorbire e azzerare i rischi della pandemia in tempi brevissimi, mostrandosi allo stesso tempo solidale con i paesi più colpiti (tra cui anche l’Italia) con evidenti interessi geopolitici. Nel momento in cui però le dimensioni dell’infezione sono cresciute esponenzialmente anche la Russia non ha potuto fare a meno di aggregarsi alle grandi potenze in difficoltà, quantomeno per contribuire direttamente nella lotta al virus.

È interessante poi considerare quei paesi che si considerano del tutto immuni dal virus. Usando le parole del politologo Oliver Stuenkel ci troviamo di fronte al “club dello struzzo”, ossia i paesi che preferiscono mettere la testa sotto terra per non vedere le conseguenze della pandemia nei loro stati: parliamo di Brasile e Bielorussia.

Il paese europeo è l’unico nel continente a non aver mai interrotto il proprio campionato di calcio, anche se la popolazione si è dimostrata più prudente di quanto il premier Lukashenko abbia fatto con le proprie dichiarazioni, diminuendo considerevolmente gli afflussi negli stadi. Ma in questo caso le stesse autorità hanno in parte contraddetto l’euforia positivista del padre-padrone bielorusso, convinto che i pochi casi di virus non potessero aumentare e che nessuno sarebbe morto a causa dell’infezione. È stato il ministero della salute infatti a fornire cifre che, pur non essendo ancora credibili essendo nell’ordine di poche migliaia, danno comunque l’idea della confusione nelle alte sfere della Bielorussia.

Il Brasile deve invece fare i conti con l’oscurantismo di Bolsonaro. Il presidente aveva inizialmente definito il Covid19 come una “piccola influenza” e adesso si trova a fronteggiare la completa saturazione del sistema sanitario in almeno due stati, Amazonas e Ceará. Inoltre i numeri ufficiali (40.000 contagiati e 2.600 morti) appaiono decisamente sottostimati. Anche per questo il paese vede l’emergenza gestita in maniera diversa tra regione e regione, finanche tra città e città. Ogni sindaco e governatore decide autonomamente come muoversi dal punto di vista delle chiusure, tendenzialmente muovendosi non secondo schemi tecnico-scientifici ma politici, ossia seguendo (o contrastando) ciò che Bolsonaro comanda.

Il Brasile deve inoltre fronteggiare altri due problemi. Il primo, di natura etico-sociale, è rappresentato dalla tutela delle popolazioni indigene, già in precedenza osteggiate dal neo presidente all’indomani della sua elezione. Queste popolazioni sono infatti tra le più esposte al virus in quanto meno preparate dal punto di vista sanitario. Il secondo ha invece natura scientifica legandosi alla percezione di massa del virus. La diffusione della pandemia anche in un paese caldo come il Brasile pone infatti l’interrogativo se veramente le alte temperature possano contribuire a battere l’infezione, come più volte auspicato (ma non confermato) da vari esperti.

Un altro paese dove il campionato di calcio, ottimo indicatore di come le autorità si siano poste nei confronti dell’emergenza, è continuato fino a metà marzo è la Turchia. Addirittura, chiunque fino a quella data avesse sostenuto la presenza di anche un solo caso sul suolo turco sarebbe stato arrestato per “incitamento al panico”. Anche in questo caso il “sultano” Erdogan avrà pensato di mostrare la Turchia come un paese invincibile, superiore alla facilmente infettabile Europa in un contrasto geopolitico ormai aperto e di difficile riparazione a breve termine.

Resosi conto della gravità della minaccia anche il “presidentissimo” ha dovuto fare una – parziale – marcia indietro, continuando però a sostenere che le misure turche fossero le migliori, tanto che “nessun virus avrebbe potuto batterle”. Erdogan ha addirittura prospettato un ritorno alla normalità per Giugno, nonostante il numero dei contagiati (ufficiali e non) continui a crescere inesorabilmente anche nel paese della mezzaluna.

Infine, sono ancora numericamente rilevanti i paesi “Covid-free”, cioè senza nessun contagio ufficialmente accertato. La mappa dell’OMS li identifica con un pallino grigio, rendendo abbastanza difficoltoso individuarli nella marea di punti azzurri ( più o meno grandi a seconda dell’intensità della pandemia) che segnano i paesi dove sono stati registrati casi. Ovviamente la maggior parte di questi paesi sono isole oceaniche, arcipelaghi distanti dalla vita economica e politica globalizzata, lontani soprattutto dai flussi di persone in giro per il mondo, principale veicolo del contagio.

Non mancano però i casi di stati continentali. Lo Yemen ad esempio, pur non essendo “Covid-free” registra appena 36 casi; così come molti paesi africani (Angola, Namibia, Burundi, Malawi) dobbiamo però ritenere che un numero di contagi solamente a doppia cifra sia da ricollegare ad una strutturale carenza di tamponi e ad uno stato di salute delle strutture sanitarie generalmente molto scarso.

Vera e propria eccezione è invece la Corea del nord. Ovviamente, il primo pensiero è che in uno stato sotto il controllo così stretto dalla dittatura i numeri siano fortemente influenzati dal desiderio del leader di mostrarsi alla comunità internazionale come potenza in grado di sovrastare ogni altro paese anche da questo punto di vista. Dobbiamo tuttavia considerare che, sempre per la natura dittatoriale del paese, l’accesso al territorio nordcoreano è severamente disciplinato e controllato, motivo per cui l’espansione dell’infezione potrebbe essere stata se non nulla, quantomeno più rigidamente controllata.

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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