Nel remoto 1600, sotto il regno di Elisabetta I, venivano emanate le Poor Laws. ll primo di una lunga serie di interventi attraverso i quali si consolidò il welfare state keynesiano. In Italia, così come in Europa, il maggior intervento dello Stato ha caratterizzato il secondo dopoguerra, sintetizzato con espressioni quali Trenta Gloriosi o boom economico. Furono anni di prosperità e crescita del PIL; lo Stato occupava una posizione centrale nel favorire l’occupazione. Le crisi petrolifere degli anni Settanta e la successiva ascesa al potere di Margaret Thatcher nel 1979 segnarono l’arresto di questo modello e l’apertura verso il Neoliberalismo. Di conseguenza, l’intervento pubblico viene relegato in seconda posizione, mentre la mano invisibile del mercato diventa il principio portante dell’economia. Welfare State, tra illusione e realtà Direttore responsabile: Claudio Palazzi
Tornando ad oggi, l’Italia è il secondo paese al mondo per incidenza della popolazione over 65. E’ seconda solamente al Giappone. Questo significa che la popolazione in età non attiva pesa sul sistema in termini pensionistici e di conseguenza sulla popolazione attiva. Gli ultimi provvedimenti tendono infatti a privilegiare l’inserimento di una parte di questa fascia: gli under 35. Le aziende che decidono di assumere giovani appartenenti a questa categoria, usufruiscono di uno sgravio fiscale per tre anni consecutivi. Indubbiamente si tratta di buone misure, che accennano a un ritorno della tanto attesa funzione regolatrice dello Stato. Inoltre, l’occupazione dei giovani rappresenta una delle sfide promosse anche dall’Unione Europea. Tuttavia, una domanda risulta inevitabile: perché simili misure non sono state attuate anche e soprattutto per la fascia over 35?

Dato il contesto, sono comuni sentimenti quali mancanza di equità, inclusione e coesione sociale. Inoltre, si percepisce una sorta di corsa e sfida tra generazioni che non solo non dovrebbe esserci, ma che non si ha nessuna voglia di intraprendere. I giovani dei nostri tempi hanno senza dubbio competenze e conoscenze, le cosiddette skills,  differenti rispetto alla fascia di mezzo; questo grazie alla continua innovazione tecnologica ed alla possibilità di viaggiare all’estero; essi sono quindi al passo con la nostra epoca. Perché allora non favorire le fasce meno interessate da questa innovazione? Quelle che hanno indubbiamente necessità di formazione e che proprio per questo motivo sempre più difficilmente trovano occupazione? E soprattutto, quali misure si possono e devono attuare?

E’ noto che in un’epoca di forte globalizzazione la digitalizzazione e l’innovazione stanno stravolgendo il mercato del lavoro. Allo stesso tempo diventa sempre più grande il divario tra competenze possedute e richiesta del mercato del lavoro. Ciò che si chiede è una sempre maggiore presenza di competenze trasversali, al fine di rispondere ai nuovi contesti lavorativi. Ad esempio, il programma lifelong learning, promosso dall’UE, ha tra gli obiettivi l’accesso e la formazione dei cittadini affinché si resti al passo con le esigenze sociali e professionali di una società in continua e rapida evoluzione.

Tali programmi sono un imperativo per la nostra società. Tuttavia, non possono essere a carico del cittadino. L’intervento è più ampio: sono lo Stato, le aziende e le istituzioni che devono assumersi la responsabilità di favorire ed attuare le riforme attraverso un iter mirato e regolarmente monitorato nelle diverse fasi. Misure simili precedenti, come stage o tirocini, attuati al fine di colmare il divario tra educazione ed inserimento nel mondo del lavoro, si sono spesso trasformate in sfruttamento della risorsa, relegata a mansioni che poco o nulla avevano a che fare con la finalità di questi programmi.

L’intervista

Abbiamo intervistato Massimiliano Puca, appartenente alla fascia over 35 che ha preso parte ad un programma di formazione in linea con quanto affermato sopra:

D:  Le nuove disposizioni in merito all’assunzione favoriscono la fascia under 35. Si percepisce un sentimento di disparità o mancanza di equità nei confronti della fascia over 35?

R: Sì, certamente. Ci si aspettava che le agevolazioni andassero a coloro che avevano registrato e documentato la propria condizione di necessità di incontrare un’occupazione. Penso, ad esempio, ai cittadini iscritti al centro d’impiego. I corsi di formazione, realizzati di concerto con le imprese, dovrebbero favorire l’accesso al lavoro proprio a questi individui. Ci si aspettava quindi che la formazione teorica trovasse sbocco in opportune riforme volte alla nostra fascia.

D: Quali incentivi reali ci si aspettava dunque per la fascia over 35, la cosiddetta fascia di mezzo? E quali iniziative dovrebbero essere attuate affinché si raggiunga un’occupazione inclusiva?

R: La prima riflessione che mi sorge riguarda ad esempio un ammortizzatore sociale introdotto di recente, il reddito di cittadinanza. Lo considero un mostro a due teste: da una parte rappresenta la vocazione assistenziale, dall’altra è una denuncia perché dimostra come senza una effettiva riforma, questa misura non smuove nulla.  Un’idea pratica potrebbe essere destinare le agevolazioni dello Stato rivolte agli under 35 a coloro che percepiscono il reddito di cittadinanza. E quindi favorire l’occupazione di questa fascia.

D: Giovani inesperti e adulti con esperienza: è giusto che i primi scavalchino i secondi?

 R: È un’anomalia del tutto italiana. Negli altri paesi europei giovani e adulti non sono in competizione tra loro. Inoltre, parlando e rapportandomi con gli stessi giovani, non percepisco affatto questa competizione che scaturisce però dalle ultime misure.

D:  Il programma lifelong learning, promosso dall’UE, ha tra gli obiettivi proprio l’accesso e la formazione degli adulti nel contesto di una società in continua e rapida evoluzione. Può questo rappresentare una soluzione? E soprattutto, è stato messo in atto nel nostro paese?

R: Non lo vedo proprio. Non vedo l’esistenza di un qualcosa di organico la cui finalità sia aiutare realmente. Personalmente, dal programma formativo a cui ho partecipato non mi aspetto molto in termini lavorativi. Ciò che invece credo possa portare a degli sviluppi successivi sta nell’aver costruito dei nuovi rapporti, relazioni e conoscenze; insomma, in questo senso, investo più sul capitale umano che su quello istituzionale.

D: Come considera in questo senso programmi come tirocini e stage?

R: In Italia molte aziende cercano carne da macello: non giovani, non adulti, ma qualcuno che sgrossi  la quantità di lavoro; non si cerca e non si premiano le nuove idee della risorsa; tantomeno si investe sulla sua formazione; le aziende spesso cercano manodopera al fine di risparmiare; e ovviamente questo atteggiamento non porta da nessuna parte.

D: La pandemia è una crisi per alcuni versi simile a quella del 2008, che ci ha portato a cambiare stile di vita  e reinventarci: come possiamo farlo nel nuovo contesto?

R: A mio avviso, ogni crisi rappresenta un’opportunità; in questo caso, affinché ci sia più Stato. Quest’ultimo deve assumere il proprio ruolo nell’essere il principale garante delle riforme sociali.

D:  Infine, secondo Lei  quanto siamo lontani dal concetto di Stato del benessere che affonda le radici nel lontano XVII secolo inglese e che abbiamo visto sempre più ridursi nel corso dei secoli?

R: Più che di stato del benessere, parlerei di stato sociale. La prima definizione è troppo inverosimile ed utopica. Stato sociale implica la presenza dello Stato: lo abbiamo visto nella contingente situazione sanitaria; a mio avviso,  l’Italia è uno dei paesi dove, rispetto ad altre parti d’Europa e non, l’emergenza sanitaria e l’accesso alle cure son stati gestiti al meglio, quindi garantiti. Credo quindi che rappresenti un elemento di speranza in merito al ruolo e alla funzione che l’intervento pubblico possa avere ora e soprattutto nella grande sfida rappresentata dal prossimo futuro.

Concludendo si afferma che la tanto paventata mano invisibile del mercato, cardine delle politiche neoliberiste, non è in grado di rispondere alle sempre maggiori esigenze di una società in continua trasformazione. L’attuale crisi economica, conseguenza della sanitaria, si prefissa simile a quella finanziaria del 2008. In risposta a quest’ultima, la società ha rimodellato i propri stili di vita, improntandoli a maggiore sobrietà nei consumi,  maggiore solidarietà e meno spinte individualistiche. Lavorativamente parlando, sono aumentate le occupazioni part-time e quelle informali. In molti casi si è assistito ad un downgrading, ovvero ad un declassamento della propria posizione. Come si reagirà alla nuova crisi? La situazione contingente richiama a gran voce l’intervento dello Stato. E’ giunto il momento che quest’ultimo riconquisti la sua centralità nel promuovere, favorire e garantire il benessere dei cittadini.

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