Dopo una lunga avanzata nel cuore dell’Ucraina da parte delle forze russe, queste ultime sono riuscite ad assumere il controllo di quattro regioni nel sud-est del paese, ovvero Kherson, Zaporizhzhia, e le due regioni del Donbas, Luhansk e Donetsk, già autoproclamatesi repubbliche separatiste e filorusse; durante l’estate, tuttavia, le forze ucraine hanno progressivamente riguadagnato terreno, costringendo l’esercito russo a ritirarsi sempre più ad est.

Le crescenti difficoltà incontrate dalle forze russe di fronte alla controffensiva ucraina hanno spinto le autorità ad un cambio di strategia: attraverso dei referendum in loco, la Federazione Russa ha dichiarato le zone occupate come parte del suo territorio. Secondo i dati forniti dal governo russo, le percentuali di votanti favorevoli all’annessione hanno raggiunto percentuali quasi unanimi in tutti i territori occupati (99% a Donetsk, del 98% a Luhansk, del 93% a Zaporizhzhia e dell’87% a Kherson).

Questa annessione, che ha riguardato circa il 15% del territorio ucraino, ha rappresentato, agli occhi delle altre nazioni, una pericolosa escalation del conflitto. La motivazione alla base sta nel fatto che la Russia, rivendicando come propri i territori ucraini, potrebbe trasformare il conflitto da un’invasione ad una difesa della propria integrità territoriale: questo le permetterebbe di avvalersi di mezzi finora mai impiegati per cercare una soluzione rapida al conflitto. Il timore dei paesi schierati a fianco dell’Ucraina è che ciò possa significare anche una legittimazione all’uso di armi nucleari.

La comunità internazionale ha rifiutato di riconoscere il risultato di questi referendum, considerandoli illegali in quanto condotti sotto un regime di occupazione militare, con gli elettori sotto minaccia armata e senza la supervisione di osservatori internazionali super partes. Attraverso i propri delegati al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, gli Stati Uniti e l’Albania hanno proposto una mozione di condanna dell’operato russo, scontrandosi con l’opposizione di Mosca, che ha utilizzato il suo potere di veto per bloccare la votazione. L’Unione Europea, dal canto suo, ha annunciato il varo di un nuovo pacchetto di sanzioni (l’ottavo) che andranno a colpire nuovamente import ed export della Russia, oltre a fissare un tetto al prezzo di acquisto del petrolio russo.

Si tratta di un passo deciso da parte dell’UE, tenuto conto del fatto che finora gli approvvigionamenti di risorse strategiche non sono stati particolarmente presi di mira dalle sanzioni europee, questo perché il continente risulta largamente dipendente dalle forniture russe, soprattutto per quanto riguarda il comparto energetico del gas.

L’infrastruttura cardine di questo approvvigionamento è il gasdotto Nord Stream, che mette in collegamento Russia e Germania attraverso il mar Baltico, in grado di trasportare fino a 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno; era in via di completamento un progetto di raddoppio della portata attraverso la realizzazione di un secondo condotto (Nord Stream 2). Tuttavia, allo scoppio del conflitto in Ucraina, su pressione statunitense, il secondo gasdotto non è mai entrato in funzione, sebbene sia stato praticamente ultimato e allacciato. Per quanto riguarda Nord Stream, la Russia, ufficialmente per l’impossibilità di fare manutenzione sui condotti a causa di componenti non importabili per via delle sanzioni europee, ha iniziato a ridurre progressivamente i volumi di gas inviati all’Europa. Il taglio dei rifornimenti ha mandato in crisi i mercati, portando i prezzi del combustibile fossile a fluttuare in maniera incontrollata. Il quadro si è aggravato ulteriormente quando Nord Stream ha cessato di operare, alla fine di agosto. Il 26 agosto, infatti, il gas è arrivato a costare circa trecentocinquanta euro al megawattora sul mercato di Amsterdam, il più importante d’Europa, dove un anno fa, nello stesso periodo, il gas ne costava ventisette. Questo incremento vertiginoso porterà aggravi in bolletta per i consumatori che l’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente stima attorno al 60% rispetto all’anno precedente.
A partire dal 27 settembre, inoltre, i gasdotti Nord Stream e Nord Stream 2 hanno iniziato a registrare perdite cospicue di gas. In particolare, le autorità hanno rilevato quattro falle sui condotti e gli istituti sismografici danesi e svedesi hanno registrato dei forti picchi di attività sottomarina, non ascrivibili a movimenti sismici. Fin da subito si è quindi fatta strada l’ipotesi di un attacco deliberato, con Occidente e Russia che si sono accusati reciprocamente di aver sabotato l’infrastruttura. Al di là della ricerca dei responsabili, che potrebbe risolversi in un nulla di fatto, il gasdotto Nord Stream è considerato a tutti gli effetti una infrastruttura “critica” dell’UE e della NATO: la messa fuori causa delle condutture costituisce un grosso fattore di tensione nelle relazioni tra Russia e Occidente, già pesantemente compromesse dal conflitto in atto.

I danni sono considerevoli e le autorità non sono ancora in grado di determinare se e quando potranno tornare operative, questo per via del fatto che, una volta fuoriuscito tutto il gas pressurizzato dalle tubazioni, potrebbero verificarsi infiltrazioni di acqua salata che porterebbero ad una corrosione del materiale dei condotti, secondo quanto dichiarato dalle autorità tedesche. La perdita di quella che è la fonte principale di approvvigionamento del gas per l’Europa costituisce un aggravamento sostanziale della già difficile crisi energetica, la quale ha richiesto interventi straordinari da parte degli organi di governo dell’UE (su tutti, l’introduzione di un tetto anche al prezzo del gas, su cui, tuttavia, manca ancora un accordo condiviso tra i paesi membri).

La grande quantità di gas metano rilasciato in mare e in atmosfera ha inoltre destato preoccupazione anche dal punto di vista ambientale, perché la vasta nube prodotta da queste fuoriuscite ha iniziato a spostarsi verso diverse zone d’Europa. La nube, dopo essere emersa in superficie, si è divisa e ha transitato in due diverse zone del Nord Europa. Le porzioni più evidenti di metano hanno sorvolato le isole Svalbard e il nord della Francia, stando ai rilevamenti del NILU, l’istituto norvegese per la ricerca sull’aria, che ha anche stabilito che le perdite si aggirano intorno alle ottantamila tonnellate di metano.
Se dal punto di vista dell’impatto sulla salute gli esperti hanno rassicurato, essi si sono divisi sul reale impatto ambientale che una perdita così cospicua può avere. Il potenziale clima-alterante del metano è molto alto e una dispersione così elevata costituisce un pericolo molto serio, soprattutto in relazione ai cambiamenti climatici. I più ottimisti sostengono che il metano effettivamente espulso nell’atmosfera sia in percentuale estremamente inferiore rispetto a quello riversato in mare, questo per via dell’azione dei cosiddetti “batteri metanotrofici” (che si nutrono di metano), i quali agiscono sul gas degradandolo e lasciando soltanto anidride carbonica, molto meno impattante dal punto di vista della capacità di alterazione climatica; inoltre, interpellato da Politico, il direttore del Planetary Research Institute di Tucson, Jeffrey Kargel, ha fatto notare che la perdita, seppure considerevole, rappresenta comunque una frazione estremamente contenuta rispetto alle altre emissioni clima-alteranti di carbonio, che si attestano attorno alle trentadue miliardi di tonnellate. Tuttavia, il professor Grant Allen, esperto in scienze della Terra e dell’ambiente, al quotidiano inglese Guardian ha dichiarato che i processi naturali potrebbero non essere sufficienti a compensare il danno.

L’instabile situazione geopolitica ha riportato in vigore un modello bipolare molto simile a quello visto nel periodo della Guerra Fredda: quella che era una disputa regionale si è allargata sempre più, fino a diventare internazionale. C’è però una differenza fondamentale: non si tratta di un bipolarismo “bloccato”, come lo abbiamo visto nel XX secolo. Il meccanismo dei rapporti internazionali risulta molto “fluido” e soggetto a rivolgimenti. All’interno della stessa UE coesistono visioni diverse, improntate ad una più o meno stretta adesione all’atlantismo (ed è uno dei motivi per cui si fatica a trovare una strategia europea coordinata per affrontare la crisi). L’imprevedibilità del quadro mostra che gli equilibri tradizionali potrebbero non essere più sufficienti.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here