Quando si parla di voto di classe si intende il nesso, la cui validità non è mai ovvia ma sempre da dimostrare empiricamente, che legherebbe le preferenze politiche degli elettori alla loro appartenenza sociale. Invero sono molte le variabili che condizionerebbero il voto del cittadino, fra cui il credo religioso, le simpatie per i singoli candidati, le opinioni sulle singole questioni e i valori post-materialisti, la cultura familiare e regionale… fratture che nelle società possono stemperare il voto di classe: non è quindi detto che un cittadino voti sempre come votano gli altri cittadini che si trovano nella sua stessa posizione di mercato, che appartengono cioè alla sua stessa classe sociale. COME LE CLASSI SOCIALI VOTANO IN ITALIA Direttore Claudio Palazzi
Ad ogni modo, nonostante le differenze che rilevano paese per paese, il voto di classe è un tema su cui molti politologi hanno lavorato fin dal dopoguerra: l’Italia tuttavia, forse per la forte presenza dei clivages religiosi e regionali, non è certo in Europa uno dei paesi dove più si è ragionato in materia. Oltre la complessità delle fratture che determinano il voto nell’urna, un limite importante del voto di classe è il suo carattere fortemente empirico. Il più delle volte non esistono dati nazionali, dunque gli studiosi si basano su sondaggi di privati interessati alla questione, stime che potrebbero non corrispondere al vero: un cittadino potrebbe non voler dichiarare la propria preferenza o potrebbe mentire sul voto espresso o sulla propria posizione sociale, e in tal caso non esisterebbero strumenti per verificare l’affidabilità delle risposte, che si presumono quindi veritiere.

Ma possiamo ancora oggi parlare di classi sociali e quindi del voto di classe? La società senza dubbio è profondamente cambiata dal secondo dopoguerra, i partiti politici indubbiamente hanno modificato le loro agende politiche e il loro discorso, ossia il modo di rivolgersi all’elettorato e di coinvolgerlo, e il mercato del lavoro così frammentato ci restituisce un’immagine della società altrettanto frammentata, dove pare anacronistico parlare ancora di borghesia e proletariato, come forse facevano i partiti di una volta. Tuttavia le divisioni sociali e le diseguaglianze rimangono e, con queste, rimangono necessariamente anche le classi sociali.

Tesi del declino e della continuità

Cercando di sintetizzare, sono due le principali tesi dei politologi che hanno studiato il voto di classe. La prima, la tesi del declino, sostenuta anche dal noto Seymour Lipset, crede che il voto di classe sia ormai esaurito, dagli anni 80, a causa della fine delle ideologie, dell’imborghesimento dei proletari che avrebbero visto i loro diritti rinforzati, dalla comparsa di nuove fratture trasversali come quella legata alle questioni ambientale, giovanile e femminile, o ancora dal fatto che il cittadino tenda a votare focalizzandosi su singole scelte, non organiche alla propria classe. Per queste ragioni, per il cambiamento radicale della nostra società, questi politologi credono che il sacro postulato che legherebbe il proletariato ai partiti di sinistra e la borghesia ai partiti di destra non sia oggi più valido.

Dall’altra parte della barricata si trova la tesi della continuità: studiare il voto di classe sarebbe ancora oggi possibile, nonostante le radicali trasformazioni sociali, a patto che la società sia studiata nel suo carattere complesso, abbandonando quindi le divisioni dicotomiche in cui credevano i teorici del declino. Lo spettro politico è più articolato, non si divide solo in sinistra/destra, e la stratificazione sociale non è riassumibile oggi nella lotta fra borghesia e proletariato. Questi studiosi hanno così cercato di restituire complessità al fenomeno, notando come il voto di classe abbia seguito nei paesi diversi andamenti diversi, rifiutando categoricamente il modello generalizzato dei teorici del declino.

Ritratto dell’Italia fra Prima e Seconda Repubblica

Si diceva che in Italia gli studi sul voto di classe non hanno mai appassionato molto. L’attenzione verteva soprattutto sul conflitto fra culture territoriali, in particolar modo come la zona rossa emiliano-romagnola tendesse a sinistra, mentre la zona bianca del triveneto a destra, e sul conflitto religioso, data la forte presenza del cattolicesimo. Solo dagli anni 1990 politologi come Bellucci, Diamanti, Mannheimer e Biorcio hanno iniziato ad interessarsi al fenomeno ma in modo del tutto originale, destando poi numeroso critiche nel settore: in Italia durante la Prima Repubblica non ci sarebbero state le condizioni per analizzare il voto di classe. Durante la cd Prima Repubblica le classi avrebbero avuto un ruolo estremamente limitato offuscato da altre fratture, mentre nella nascente Seconda Repubblica avrebbero assunto un ruolo maggiore, vista la crisi di sistema e la conseguente ridefinizione dello spettro politico. Tuttavia la tesi per cui l’Italia post 1989 stesse per conoscere un aumento del peso delle classi sociali, a dispetto di quanto accadesse nel resto del mondo, non convinse molti.

Ulteriori studi svolti negli anni successivi, come quelli di Maurizio Pisati, modificano un’altra volta il ritratto dell’Italia dipinto fino a quel momento, restituendo maggiore complessità al fenomeno. La Seconda Repubblica aveva tradito le aspettative dei politologi che credevano in un ritorno in un’auge del voto di classe: il bipolarismo non aveva allineato gli operai a sinistra e la borghesia a destra, ma al contrario aveva creato un sistema centripeto in cui entrambi gli schieramenti concorrevano al centro, sempre più al centro, spesso confondendo parti di elettorato. Tuttavia, anche l’idea secondo la quale il voto di classe non fosse più un fenomeno degno di essere studiato non sembrava certo convincente, soprattutto in considerazione del grande aumentare delle diseguaglianze e della crisi economica. Così, per beneficio di sintesi, l’Italia del voto di classe può essere immaginata come divisa in scalini – ad ogni scalino il voto di classe diminuisce di intensità ma si riformula ogni volta trovando nuova linfa vitale e nuove angolazioni dalle quali essere studiato:

  • 1953-1976: Sono gli anni del centrismo e del centrosinistra. Le elezioni riflettono la lotta di classe tradizionale. L’alleanza fra classi e partiti va secondo le attese: la classe operaia a fianco dei partiti della sinistra ossia Pci e Psi, mentre le classi medie e la borghesia verso i partiti di centro e di destra, in particolar modo Pli, Pri e Msi. Caso unico è quello della Dc che si attesta come primo partito, con un forte carattere interclassista, rendendo meno nitida la corrispondenza naturale che tuttavia sembra confermata in questo periodo.
  • 1976-1994: inizia a mutare il voto di classe. Gli anni del compromesso storico e la segreteria socialista di Craxi determinano uno slittamento al centro del sistema partitico. Il legame fra la classe operaia e il Pci si attenua anche se rimane privilegiato. La borghesia mantiene un certo legame con il polo laico cioè Pli, Pri, Radicali, Verdi, e attenua il rapporto con il Msi, si attenua avversione al Pci e si estingue la sua avversione per il Psi. La classe media impiegatizia diventa di fatto l’elettorato medio perché annulla la distanza da Pci e Psi, e annulla la vicinanza a Pri, Pli e Msi. Processo simile a quello della piccola borghesia urbana che però mantiene un legame privilegiato con Msi e poi con la Ln. L’andamento centripeto del sistema determina quindi un parziale declino del voto di classe.
  • 1994-2008: la crisi di Tangentopoli che scioglie i principali partiti storici e il governo Berlusconi danno inizio alla cd Seconda Repubblica. La classe operaia interrompe i legami privilegiati con la sinistra (Pds-Ds-Ulivo-Pd) ed evita avversioni a destra (Fi-Pdl). Ciononostante i lavoratori manuali sostengono ancora sinistra estrema come Rc o Pdci ed avversano centrosx e centrodx. L’alta borghesia sembra avversare sinistra estrema e Lega nord, mentre simpatizza per partiti che tendono al centro dx o sx. Le classi medie divengono invece i nuovi vessilli del voto di classe: la classe media impiegatizia va a sinistra, la piccola borghesia urbana invece va a destra, verso la Ln.
  • 2013-2018: le ultime due elezioni politiche sembrano confermare alcune di queste recenti tendenze, non senza sorprese. La volatilità elettorale aumenta (ndr il mutamento di preferenza fra un’elezione l’altra – oggi decisamente elevato, mentre prima del 1989 si parlava di congelamento della volatilità) e i partiti maggiori divengono sempre più interclassisti e pigliatutto: è meno facile prevedere come votino le classi sociali, congelando in schemi un comportamento influenzato ormai da molte fratture che prescindono da quella fra capitale e lavoro. Secondo l’articolo di Itanes su La Stampa “Le classi sociali al voto: operai per i pentaleghisti e i garantiti col PD”, i nuovi protagonisti della scena, M5S e Lega, prendono insieme il 65% del consenso operaio. Il Pd diventa sempre più un partito votato da classi benestanti, mentre la Lega è forte fra i liberi professionisti e nel settore privato, avversata dagli impiegati del pubblico che restano invece a cavallo fra 5s e sinistra.

Prospettive future

L’immagine che ci restituiscono gli studi più recenti sul voto di classe è dunque quella di un paese dove, mutatis mutandis, è ancora possibile studiare il nesso fra preferenze e appartenenza, seppur inquadrato nelle regole di una società completamente nuova, che fa i conti con uno spettro politico ampio e caratterizzato da partiti che cercano di essere pigliatutti e interclassisti, rivolgendosi non più sic et simpliciter a borghesia e proletariato, ma ad una rosa sociale molto più ampia e dagli interessi frammentati. Il tutto, sempre tenendo a mente che la variabile sociale è sì importante ma non è l’unica a condizionare il voto – ed oggi probabilmente neanche la più incisiva – e che le analisi empiriche di cui si servono i politologi sono soggette a margini di errore considerevoli.

Fare previsioni sul futuro è impossibile, specialmente in un clima politico post-ideologico la cui costante è la mutevolezza, tuttavia la direttrici fondamentali sembrano essere la propensione della classe media impiegatizia ad allinearsi con il centro-sinistra, e della piccola borghesia urbana con il centro-destra. Dunque i nuovi protagonisti del voto di classe non sembrano essere più borghesia e proletariato, ma le classi medie ossia gli impiegati del pubblico, più a sinistra, e il settore privato dell’impresa, più a destra.

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