Il vuoto dopo la morte di Gheddafi
20 Ottobre 2011, in un canale di scolo della città di Sirte, in Libia, si nasconde il Presidente Muammar Gheddafi. Il paese è in subbuglio da mesi, il governo non ha le forze per tenere a freno la rivolta, ovunque dilaga ormai la Primavera Araba: il movimento panarabo che in quegli anni lottava contro i regimi autoritari e chiedeva a gran voce l’instaurarsi della democrazia. LIBIA, ELEZIONI 2021: UNA TRANSIZIONE DEMOCRATICA SENZA FINE Direttore Claudio PAlazzi
Una volta stanato, Gheddafi viene catturato dal Consiglio nazionale di transizione, percosso e torturato in modi ancora oggi non del tutto chiari, ma che hanno sollevato ampie critiche da parte di Amnesty e di Human Rights Watch. Le numerose ferite riportate all’addome e in testa provocano la morte del Presidente, che governava dal 1969, anno del golpe ordito per destituire la monarchia, che segnò l’inizio di un esperimento politico islamico e socialista, che sintetizzò riforme economiche, sociali e politiche con i precetti religiosi.
Tuttavia la democrazia sognata dalla Primavera Araba non si è rivelata un traguardo facile, e la morte del Presidente, al contrario, ha creato un vuoto e gettato il paese in un’eterna guerra civile che ha coinvolto attori locali, internazionali quali l’ONU, l’UE, la NATO e le altre potenze del mondo arabo, e persino l’intervento parassita di miliziani integralisti pronti ad insediarsi nei chiaroscuri del potere.
Nel 2012, i ribelli del Consiglio Nazionale di Transizione cedono ufficialmente il potere all’eletto Congresso Nazionale Generale (GNC), con il compito di formare un governo e di redigere una Costituzione. L’avvocato Ali Zeidan è nominato primo ministro.
Nel 2014 la situazione precipita di nuovo in seguito al golpe del generale Khalifa Belqasim Haftar, uomo forte della Cirenaica, e con l’occupazione del palazzo del Parlamento a Tripoli da parte di soldati a lui fedeli. Il generale aveva lanciato pochi giorni prima un attacco contro le milizie islamiste nella Cirenaica, non autorizzato dal governo centrale, accusandolo lo stesso governo di collaborare con i miliziani e annunciando in televisione la sua destituzione.
Il Governo di Tripoli e il Governo di Tobruk
Nel 2015 la Libia si trova così spaccata in due: da un lato, il governo di Tripoli, altrimenti noto come Governo di Accordo Nazionale (GNA), nato con gli accordi di Skhirat del 17 dicembre 2015, guidato al tempo da Fayez al-Sarraj e riconosciuto internazionalmente dall’Onu. Dall’altro lato, il governo di Tobruk, insediato nella zona orientale del paese e affiliato al generale Haftar. Questi non è riconosciuto internazionalmente ma riceve il sostegno di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Russia e Francia.
Il Governo di unità nazionale e le elezioni
Trascorsi più di cinque anni di guerra, nel febbraio 2021, dopo mesi di negoziati avviati in seguito al cessate-il-fuoco dell’ottobre 2020, il Forum di Dialogo politico Libico (LPDF) tenutosi a Ginevra e sostenuto dall’ONU ha eletto Mohamed Ahmed al-Menfi presidente del Consiglio Presidenziale e Abdul Hamid Dbeibah primo ministro, affidando loro l’oneroso compito di traghettare il paese verso la democrazia, con l’organizzazione di elezioni democratiche parlamentari e presidenziali. Ormai entrambi i governi opposti sono sciolti e riconoscono il governo di unità nazionale.
La data per elezioni decisa dal summit di Parigi di questo novembre cui hanno partecipato più di venti paesi è il 24 dicembre, tuttavia sono molti i sentori che fanno presagire un ulteriore rinvio. Una lista ufficiale dei candidati ancora non esiste: sarebbero infatti, secondo la commissione, ben 5385 i cittadini libici che avrebbero presentato la propria candidatura alle elezioni presidenziali. Da qui una vera e propria guerra fra candidati, a colpi di ricorsi elettorali: è avvenuto contro il primo ministro in carica Abdul Hamid Dbeibah, che aveva promesso di non presentarsi alle elezioni presidenziali – ma la commissione si è espressa in suo favore, in quanto il giuramento sarebbe stato morale e non certo giuridico. Lo stesso è accaduto anche al generale Haftar e al terzo figlio di Muammar Gheddafi, ricercato dal tribunale internazionale per crimini contro l’umanità.
I nomi che spiccano
Fra queste orde di nomi, sono in vero non molti quelli che spiccano e che avrebbero reali possibilità di catturare il consenso popolare.
Innanzitutto si presenta Dbeibah, il primo ministro ad interim, il quale nominato con l’approvazione della comunità internazionale promise che non si sarebbe candidato alle future elezioni democratiche che il suo governo aveva il compito di preparare. Nonostante l’opposizione e i ricorsi degli altri candidati, la commissione elettorale ha accettato la sua candidatura.
Poi c’è il generale Haftar, che non molti mesi fa aveva assediato Tripoli con l’intento di prendersi tutto il paese, ed ora, dopo la sconfitta militare, tenta la via democratica al potere. Anche in questo caso la commissione ha accettato la candidatura, ma sono stati presentati vari ricorsi a suo danno.
Infine Saif Gheddafi, figlio di Muammar Gheddafi, che nel 2015 era stato giudicato colpevole di crimini di guerra e condannato a morte. Nonostante l’amnistia ricevuta, la sua candidatura rimane molto controversa. Inizialmente rifiutato dalla commissione, ha fatto ricorso in tribunale e vinto. Ma ad oggi ci sono ulteriori ricorsi da esaminare.
Una transizione complessa
È certo però che ad ostacolare la transizione democratica in Libia non siano solo i ricorsi e le antipatie fra i vari candidati. Richard Norland, ex ambasciatore USA in Libia, ha sottolineato la precarietà della situazione e allarmato l’opinione pubblica del rischio di una nuova guerra civile, dichiarando al The Guardian che starebbero per vincere “quelli che preferiscono il potere delle pallottole al potere delle urne”, e, difatti, persino la comunità internazionale sembrerebbe a corto di soluzioni: Jan Kubis, l’inviato speciale dell’ONU per la Libia, si è dimesso a fine novembre dopo meno di un anno in carica, improvvisamente in uno dei momenti più cruciali del processo di transizione, senza troppe spiegazioni in merito.
Dunque se sarà rimandata la data delle elezioni, bisognerà ripartire da zero, convocare un nuovo vertice internazionale, riconquistare l’armonia fra le parti, trovare una nuova data, decidere insieme le regole del gioco democratico e definire una lista chiara di candidati, al netto delle valanghe di ricorsi. La tregua del 2020 che ha accompagnato la dissoluzione dei due governi nel governo provvisorio di unità nazionale sembra reggere ancora, tuttavia il paese è lacerato, nel migliore dei casi, in due. Tutti aspirano al controllo della ricchezza della Libia, petrolio e gas, che coprono quasi il 95 per cento del bilancio dello Stato.
Dunque almeno due i poli in guerra, spalleggiati chi da Russia, chi da Turchia, dall’Egitto, dai paesi del Golfo, dallo stesso occidente democratico, presenze straniere interessate che inviano il proprio sostegno militare ed economico ad una parte o all’altra, tenendo, come scrive Carducci su “La voce di New York”, “La Libia sospesa sull’orlo del baratro. Senza che nessuno possa dire: adesso basta”.