Sentir parlare oggi di mascherine, lockdown, distanziamento di almeno un metro, di tutorial su come lavare le mani nel modo più corretto e delle file chilometriche fuori dai supermercati sembra quasi far rivivere un brutto sogno. Ma com’è la situazione oggi? Come si sono evolute le cose successivamente alla fine della pandemia da SARS-CoV-2?
Guardandoci indietro di tre anni, tante cose sono cambiate, alcune non torneranno mai più ad essere come prima, mentre alcune per fortuna sono tornate a nostra disposizione.
Abbiamo passato anni a sperare di poter abbracciare la nostra famiglia senza paura, a sperare di poter urlare sotto il palco di un concerto oppure avere la libertà di uscire ad ogni orario del giorno e della notte.
Il fronte interno, come in una guerra
Quello che potremmo definire come “fronte interno” è la realtà ospedaliera, medici e infermieri che come in una guerra si sono battuti al fianco di tutti, anche rimettendoci in quanto a salute e contatti con le proprie famiglie.
Ormai negli ospedali la fiamma spaventosa si sta lentamente affievolendo, si è arrivati a non avere l’obbligo di mascherine in tutti i locali della struttura. Si può guardare indietro per rendersi conto di quanto siano stati complessi questi ultimi anni e quanto medici e infermieri abbiano sofferto un peso sulle spalle non indifferente.
Già da prima che fossero ufficializzati i primi malati di Covid-19 nel nostro Paese, in ospedale c’erano le prime avvisaglie, ma tutto sembrava essere molto lontano, come se si volesse nascondere la testa sotto la sabbia pur di non realizzare che quella che stava per arrivare sarebbe stata una delle più grandi emergenze sanitarie della storia. È proprio così: eravamo e siamo tutt’oggi immersi nella storia (nostro malgrado).
Tutto era più grande di quanto ci si aspettava e anche inconsciamente già coinvolgeva tutti, nessuno escluso.
All’interno dei reparti i turni erano sempre gli stessi, con la stessa stanchezza, la stessa voglia di salvare persone e anche la stessa consapevolezza che tutto è complesso quando si ha a che fare con esseri umani. L’ingrediente in più nel turno era la paura.
Fino a che i colleghi in turno non hanno iniziato ad ammalarsi, tutto era normale, poi all’improvviso si è presa coscienza della situazione.
C’è stato un inevitabile cambio di tecnica lavorativa, perché non si era abituati minimamente a lavorare con una quantità sbalorditiva di protezioni addosso. Anche se prima che arrivasse la necessità di creare dei reparti ad hoc per i malati di Covid le precauzioni erano usate lo stesso, il problema è insorto nel momento in cui i dispositivi protettivi non erano abbastanza in termini quantitativi e quindi insufficienti per difendersi dalla situazione. C’è stato un apprendimento “fai da te” data l’improvvisa necessità occorsa di difendersi da qualcosa di sconosciuto.
La relazione con i pazienti è alla base del lavoro all’interno delle strutture ospedaliere. La distanza ipotizzata con i pazienti affetti dalla malattia in realtà non c’era, perché erano soli, abbandonati alla paura e ai sintomi di un virus sconosciuto. Come dei robot, come se nulla potesse colpirli, medici e infermieri entravano nelle stanze e oltre a dare supporto farmaceutico, davano supporto umano. Aiutavano all’abbattimento della distanza dalle famiglie dei pazienti con delle videochiamate, dei messaggi mandati dall’esterno, qualsiasi cosa in loro potere.
Se aiutare i pazienti ad avere contatti con l’esterno era una delle prime cose da fare, il personale sanitario si è trovato a doversi allontanare (quando possibile) dalla propria famiglia, per cercare di salvaguardarla dal loro possibile ritorno a casa con il virus nel corpo o sugli indumenti.
Se si chiede se ci fosse più paura per un virus sconosciuto o fosse di più la paura di riportarlo all’interno dell’ambiente domestico, la risposta ricade sulla seconda opzione, senza troppi tentennamenti.
Per quanto riguarda il lavoro, con i colleghi c’è stata una maggiore coesione, ci si è uniti e ad legarli c’è stata la paura, come la base di una grande piramide, i cui gradini erano proprio il personale sanitario. Inoltre, a rendere forte questa piramide c’era la consapevolezza che nessuno al di fuori delle mura ospedaliere potesse capire realmente cosa pensavano, provavano o facevano, perché le parole e le immagini che si vedevano in televisione, come sui social media, non erano abbastanza.
“Pur non essendo attaccati dal virus, venivamo trattati come se lo fossimo”, è questo quello che viene raccontato, perché quando si veniva a conoscenza del lavoro svolto non si pensava alle azioni svolte e al rischio corso, ma solo alla grande paura di venire a contatto con persone potenzialmente infette.
È vero, il tutto descritto in questo modo potrebbe far dire “dai, non sono mica supereroi, hanno solo fatto il loro lavoro”, invece a volte un po’ di riconoscenza fa solo bene.
La situazione pandemica ha fatto aprire gli occhi oltre che sull’imprevedibilità degli eventi e del futuro, anche sulla necessità di portare in alto chi giornalmente copre le spalle al prossimo.
Andrà tutto bene è il motto del periodo della pandemia e continuiamo a sperarlo vivamente, perché chi si scorda il numero di morti giornalieri annunciati al telegiornale, oppure i carri armati che trasportavano via i feretri da Bergamo, o ancora le strade deserte?
Oggi tutto è in fase di normalizzazione, ma è stato appreso come nulla è troppo lontano e non tutto capita sempre agli “altri”.