DEMOCRAZIA A RISCHIO: UN PARALLELO STORICO TRA CRISI ECONOMICHE E TENSIONI SOCIALI

Nelle settimane che stiamo vivendo tutto il mondo è alle prese con i nodi economici che la terribile pandemia ha portato con sé. Dopo il totale – o parziale, a seconda dei paesi – lockdown per arginare l’impatto del Covid-19, ovunque si ragiona su come e quanto spostare l’ago della bilancia verso una ripresa in sicurezza delle attività. Fermo restando che il diritto alla salute è il bene primario di ogni cittadino, è purtroppo ormai evidente come i costi di un’economia paralizzata rischino di essere irreversibili, portando al tracollo finanziario milioni di famiglie. Molti paesi stanno affrontando gli effetti della crisi finanziando il lavoro. In questo modo si cerca di attenuare l’impennata della disoccupazione, ma il crollo dell’attività economica non può essere nascosto. Le previsioni economiche pubblicate dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Commissione Europea sono impietose.

Ma i problemi non finiscono di certo qui. La storia insegna come le crisi economiche portino inevitabilmente con sé tensioni sociali. La pandemia ha certamente determinato uno shock globale, in quanto ha colpito tutti i paesi. Tuttavia, guardando più a fondo, è facile scorgere la portata asimmetrica di tale crisi: sia tra paesi diversi, sia all’interno degli stessi. Le variabili sono molte, dalla situazione economica precedente al virus alla lungimiranza della politica, e rischiano di provocare insofferenze tra le nazioni e spaccature interne. È per questo che al mantra del “non lasciare indietro nessuno” devono seguire risposte tangibili e tempestive.

In questo scenario è opportuno che le istituzioni comunitarie e globali facciano tutto ciò che è nelle loro possibilità a sostegno dei governi nazionali in difficoltà, evitando egoismi e particolarismi. Altrimenti i cittadini dimenticati potrebbero essere propensi a scambiare una parte delle loro libertà a favore di un maggior decisionismo. In altre parole, ci si chiederà se le democrazie nazionali e le istituzioni internazionali, con i loro sistemi di pesi e contrappesi e le loro lentezze burocratiche, non siano una perdita di tempo. Lo sguardo potrebbe così volgere verso una semplificazione del quadro politico, subendo il fascino di una svolta autoritaria nazionalista, corroborata da un concentramento di poteri nelle mani dell’uomo forte di turno.

In queste settimane, più volte si è tentato di trovare un parallelo storico allo shock che stiamo attraversando. Il confronto che più di ogni altro – seppur con tutte le cautele del caso – può reggere con l’unicità del momento attuale è la grande crisi del 1929. Dunque, proviamo a vedere meglio cosa avvenne oltre 90 anni fa negli Stati Uniti e quali furono le ripercussioni economiche e sociali della grande depressione in Europa.

PER UN QUADRO STORICO

Alla fine degli anni ’20 l’Europa e il mondo sembravano avviati a superare i traumi e le ferite del primo conflitto mondiale. I rapporti tra le maggiori potenze attraversavano una fase di distensione. L’economia dell’Occidente capitalistico, trainata dalla grandiosa espansione produttiva degli Stati Uniti, aveva ripreso a svilupparsi con regolarità dopo l’iniziale instabilità postbellica. In questo quadro di apparente solidità e di diffusa prosperità si abbatté una crisi economica tanto imprevista quanto catastrofica. Dal punto di vista politico, gli Stati Uniti degli anni ’20 furono segnati da un’incontrastata egemonia del Partito Repubblicano. Sostenitori di un rigido liberismo economico e convinti che l’accumulazione della ricchezza privata costituisse la miglior garanzia di prosperità, i repubblicani attuarono una politica fortemente conservatrice.

E così, nonostante gli squilibri sociali e i pregiudizi razziali, nulla intaccò la fiducia verso un indefinito processo di crescita. La conseguenza più vistosa di questo clima fu la frenetica attività della borsa di New York (Wall Street), consistente in gran parte in operazioni speculative, incoraggiate dalla prospettiva di facili guadagni. Questa incontenibile euforia speculativa poggiava in realtà su fondamenti assai fragili, come fragili erano le basi dell’intero processo di espansione sviluppatosi negli Stati Uniti degli anni ’20. Il boom del settore industriale formò una capacità produttiva di beni di consumo durevoli sproporzionata alle possibilità di assorbimento del mercato interno, avviando perciò l’aumento delle esportazioni nel vecchio continente.

La generale ripresa dell’economia europea nella seconda metà degli anni ’20 – resa possibile da un cospicuo afflusso di capitali americani sotto forma di prestiti – aveva consentito all’industria statunitense, protetta da elevate barriere doganali, di allargare la sua penetrazione nei mercati europei. Fra economia americana ed economia europea si venne così a creare uno stretto rapporto di interdipendenza: l’espansione americana finanziava la ripresa europea e questa a sua volta alimentava con le sue importazioni lo sviluppo degli Stati Uniti.

IL GRANDE CROLLO DEL 1929 E I SUOI EFFETTI

Questo meccanismo poteva tuttavia incepparsi da un momento all’altro, anche perché i crediti statunitensi all’estero erano generalmente erogati da banche private e dunque legati a puri calcoli di profitto. Una prima avvisaglia della crisi ci fu nel 1928: molti capitali americani furono infatti dirottati verso le più redditizie operazioni speculative di Wall Street. Le conseguenze sull’economia europea si fecero sentire immediatamente, ripercuotendosi subito dopo sulla produzione industriale americana, il cui indice cominciò a scendere già nell’estate del ’29. In una situazione già incerta si abbatterono gli effetti catastrofici del crollo della borsa di New York.

Il corso dei titoli a Wall Street raggiunse i livelli più elevati all’inizio del settembre 1929. Seguirono alcune settimane di incertezza durante le quali cominciò a emergere la propensione degli speculatori a liquidare i propri pacchetti azionari per realizzare i guadagni fin allora ottenuti. Ma la corsa alle vendite determinò naturalmente una precipitosa caduta del valore dei titoli, distruggendo in pochi giorni molte fortune, con conseguenze enormi non solo sul piano economico.

Il crollo del mercato azionario colpì in primo luogo i ceti ricchi e benestanti. Ma, riducendo drasticamente la loro capacità di acquisto e di investimento, finì con l’avere conseguenze disastrose sull’economia di tutto il paese e sull’intero sistema economico mondiale, che ormai dipendeva in larga parte da quello statunitense. Gli effetti planetari della crisi furono aggravati dal fatto che gli Usa, anziché assumersi le responsabilità connesse al ruolo di potenza egemone sul piano economico (e farsi dunque carico della stabilità del sistema internazionale), cercarono innanzitutto di difendere la loro produzione inasprendo il protezionismo e sospendendo contemporaneamente l’erogazione dei crediti all’estero.

Il protezionismo statunitense indusse gli altri paesi a prendere misure analoghe a difesa della propria bilancia commerciale. Attraverso la contrazione degli scambi, la recessione economica si diffuse in tutto il mondo, determinando un crollo della produzione mondiale di manufatti e materie prime, una brusca caduta dei prezzi sia nel settore industriale che in quello agricolo, nonché una crescita esponenziale della disoccupazione. In generale, il consistente impoverimento che colpì i lavoratori generò uno stato d’incertezza e di sfiducia, che in molti paesi fu all’origine di profondi mutamenti politici.

UN CASO EMBLEMATICO: L’ASCESA DEL NAZIONALSOCIALISMO

Quando la crisi giunse in Europa, tutti i governi dei paesi industrializzati ritennero di potersi affidare ai classici principi della scuola economica liberale: primo fra tutti quello del pareggio del bilancio. Di conseguenza, la spesa pubblica venne drasticamente tagliata e furono imposte nuove tasse. Tuttavia, questi provvedimenti compressero ulteriormente la domanda interna, aggravando perciò la recessione e la disoccupazione. E così avvenne anche in Germania.

Qui le conseguenze della crisi si fecero sentire più che in ogni altro Stato europeo, a causa della stretta integrazione che il sistema dei prestiti internazionali aveva creato fra l’economia statunitense e quella tedesca, ancora gravata dall’onere delle riparazioni della Prima guerra mondiale. La crisi mise in grave difficoltà il governo di coalizione allora guidato dai socialdemocratici, provocando un dissenso insanabile fra la Spd e i partiti di centro-destra. Nel marzo 1930 la guida del governo passò a un esponente del Centro cattolico, Heinrich Bruning, che attuò una severissima politica di sacrifici. Nel 1932 la crisi raggiunse il suo apice: il dimezzamento della produzione industriale rispetto al 1928 e l’aumento vertiginoso a 6 milioni di disoccupati facevano da sfondo alla rapida ascesa del movimento nazionalsocialista.

Fino al ’29 il Partito nazista rimase un gruppo minoritario e marginale. Nelle elezioni del maggio 1928 ottenne appena il 2,5% dei voti. Ma con lo scoppio della grande crisi lo scenario cambiò radicalmente. La maggioranza dei tedeschi perse ogni fiducia nella Repubblica e nei partiti che si identificavano in essa, iniziando ad appoggiare le forze eversive, a partire dai nazisti, per cambiare le regole del sistema. Quest’ultimi poterono così uscire dal loro isolamento e far leva sulla paura della borghesia, sulla frustrazione dei ceti medi e sulla rabbia dei disoccupati. Ai suoi concittadini provati dalla crisi Hitler offriva la prospettiva esaltante della riconquista di un primato della nazione tedesca, l’indicazione rassicurante di una serie di capri espiatori cui addossare la responsabilità delle disgrazie del paese e l’immagine tangibile di una forza politica in grado di ristabilire l’ordine.

Nelle reiterate elezioni degli anni successivi, dovute all’impossibilità del sistema politico al collasso di formare una qualsiasi maggioranza costituzionale, i nazisti passarono dal 2,5% del 1928, al 18,3% del 1930, al 37% del 1932, fino al 44% del 1933. Divenuto capo del governo nel gennaio 1933, dopo una stretta repressiva, Hitler mirò all’abolizione del Parlamento: il Reichstag lo assecondò approvando una legge suicida che conferiva al governo pieni poteri e proclamò il Partito nazionalsocialista come l’unico consentito in Germania. L’anno seguente, con il colpo di mano guidato da Hitler nella cosiddetta “notte dei lunghi coltelli” e la morte del presidente della Repubblica Hindenburg, il Fuhrer sottomise le forze armate al potere politico e unì le cariche di cancelliere e capo dello Stato. La strada verso il totalitarismo era compiuta.

DEMOCRAZIA A RISCHIO

Nel corso degli anni Trenta la democrazia europea visse il suo momento più buio. Già nel decennio precedente regimi autoritari – ispirati dal fascismo italiano – si erano affermati in molti Stati dell’Europa mediterranea e orientale (Ungheria, Polonia, Grecia, Bulgaria, Jugoslavia, Spagna e Portogallo). Nei paesi più progrediti si pensava che tali regimi fossero il prodotto dell’arretratezza e dello scarso radicamento dei principi liberal-democratici. Ma la grande crisi del 1929 segnò una netta cesura nello sviluppo storico delle società occidentali. Essa sconvolse i vecchi assetti e accelerò trasformazioni già in atto. In ampi strati dell’opinione pubblica si diffuse la convinzione che i sistemi democratici fossero troppo deboli per tutelare gli interessi nazionali e garantire il benessere dei cittadini. I successi del nazismo in Germania e la crescita generalizzata dei movimenti autoritari in Europa e nel mondo segnarono la decadenza dell’Europa liberale. Dunque, la crisi del 1929 compromise seriamente gli equilibri internazionali, mettendo in moto una catena di eventi che avrebbe portato, nel giro di un decennio, a un nuovo conflitto mondiale.

Dopo questo lungo excursus nella storia, torniamo ai giorni nostri ponendoci alcune domande. Che lezioni possiamo trarre dalla crisi del ’29? Cosa mancò per evitare che la crisi sfociasse in un disastro mondiale? Quali errori non dobbiamo ripetere durante la crisi in atto? Le cause che acuirono gli effetti planetari della crisi del 1929 furono essenzialmente tre. In primo luogo, l’assenza di una leadership mondiale: a differenza di quanto accadde durante e dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti non si assunsero le responsabilità connesse al ruolo di potenza egemone sul piano economico, privilegiando la difesa della propria produzione. In secondo luogo, l’assenza o il fallimento delle istituzioni comunitarie che potessero guidare la crisi con risposte comuni: su tutte la Società delle Nazioni, istituita all’indomani della Prima guerra mondiale con lo scopo di accrescere il benessere e la qualità della vita degli uomini, prevenendo indissolubilmente nuovi conflitti. Infine, l’insuccesso delle ricette economiche adottate: la fiducia dei governi nei principi liberali condusse inizialmente verso politiche di austerità al fine di ottenere il pareggio del bilancio, con il risultato di un aggravamento della recessione e della disoccupazione.

Se queste sono le premesse, le prospettive all’orizzonte non sono rosee. L’attuale amministrazione americana ha abdicato al ruolo di guida mondiale, lasciando intendere che la grandezza dell’America le interessa molto di più del futuro dell’umanità. La strumentalizzazione politica del virus sta accelerando un sentimento anti-comunitario e antiglobalizzazione dagli esiti geopolitici incerti. Le risposte dell’Unione Europea, sovrastata da divisioni e particolarismi, sono ancora insufficienti. Le ricette economiche sono maggiormente espansive rispetto alle ultime crisi vissute, ma non stanno dando fondo a tutta la potenza che potrebbero dispiegare, lasciando indietro ancora troppi paesi e persone. Se non saranno adeguate tempestivamente crescerà la sfiducia delle nazioni più colpiti nelle istituzioni comuni.

L’eco di queste mancanze potrebbe essere una maggiore considerazione dei cittadini verso l’autoritarismo cinese o russo, le cui influenze saranno agevolate dal vuoto lasciato dagli Stati Uniti e dalle inadeguatezze dell’Unione Europea. Altrimenti aumenterà la richiesta di un isolamento nazionalista, di uno Stato più forte e decisionista, legittimato ad arrogarsi pieni poteri in nome di una svolta autoritaria contro le lentezze e le titubanze della democrazia. Regimi autoritari sono sorti negli ultimi anni in tutto il mondo. Non dovremmo pensare come negli anni Trenta che essi siano il prodotto dell’arretratezza o dell’insufficiente radicamento dei principi liberal-democratici. Dobbiamo imparare la lezione della crisi del 1929, i cui effetti socioeconomici sconvolsero gli assetti istituzionali esistenti, accelerando la caduta dell’Europa liberale. Il vulnus democratico nell’Europa dei nostri giorni è già aperto: i poteri straordinari concessi di fronte all’emergenza Covid-19 al primo ministro ungherese Viktor Orban – su tutti la possibilità di governare per decreto a tempo indeterminato, senza alcun controllo da parte del parlamento – minacciano aspetti fondamentali dello stato di diritto e rappresentano una pericolosa stretta autoritaria per il suo paese. Serviranno risposte comuni e tempestive per evitare che il contagio nazionalistico si unisca a quello del virus.

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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