Dal “caso Del Carlo” al “caso Dj Fabo” passando per Piergiorgio Welby fino ad Eluana Englaro e molti altri: passano gli anni, ma il tema dell’eutanasia legale si conferma sempre come uno degli argomenti di dibattito più scottanti e divisivi del nostro Paese.              Dalla primavera del 2000 sino ad oggi, sono almeno 13 i casi limite verificatisi in Italia: nonostante il “fine vita” sia ormai una realtà accettata e consolidata in molti paesi europei, nel nostro Paese ancora non esiste una normativa volta alla regolazione di una tale fattispecie.

Gli interrogativi a questo punto crescono sempre di più: è una questione etica? Politica? Legale? Oppure semplicemente, la stiamo solo ignorando? Eutanasia: il fine vita secondo le opinioni comuni dei cittadini Direttore Claudio Palazzi
Il fine vita: un tema delicato e divisivo
Gli anni passano, i casi aumentano: eppure, di una normativa relativa all’”eutanasia” e più in generale al “fine vita”, ancora non si è vista l’ombra. Che questo sia un tema fortemente divisivo, non c’è bisogno di ribadirlo: esattamente come già avvenuto in passato per fattispecie simili, quando il tema della morte incontra quello dei diritti, è difficile venirne a capo con una soluzione che metta d’accordo tutti.

Quella del “fine vita” e dell’”eutanasia” è una questione in cui bioetica, coscienza personale e diritti si mischiano, fino a diventare un tutt’uno. Sebbene quello del “fine vita” in generale rappresenti probabilmente uno degli argomenti, se non addirittura il maggiore argomento d’attualità e d’interesse pubblico in questi primi ventuno anni di secolo, questo si conforma allo stesso tempo come un’ardua sfida da sostenere su più fronti: quello politico, quello etico, ma soprattutto quello legale e normativo.

Se da una parte, infatti, la pratica del “fine vita” sembrerebbe essere per certi versi facilitata dalla “coscienza” dei diretti interessati, reputati capaci di intendere e di volere, dall’altra invece si complica per coloro che non possiedono tale facoltà, a causa dello stato pregresso in cui si trovano: da qui la difficoltà di pervenire ad una normativa generale, capace di tutelare tutte le possibili fattispecie, a cui si aggiunge poi la difficoltà di conciliare le diverse posizioni in materia, quelle laiche insieme a quelle più religiose, così da arrivare ad una visione comune e condivisa.

Da una parte disobbedienze civili, leggi d’iniziativa popolare, richiami della Corte Costituzionale fino ad arrivare, oggi, al referendum; dall’altra comitati contro l’eutanasia, appelli alla sacralità della vita, il silenzio del Parlamento e la contrarietà del Vaticano: la questione sembra essere tutt’altro che risolta, anzi.

Cosa si intende precisamente per “eutanasia”
Il termine “eutanasia” significa letteralmente “buona morte” (dal greco eu-thanatos) e indica l’atto di procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di una persona che ne faccia esplicita richiesta.

Nei diversi paesi in cui questa pratica risulta accettata e consolidata dal punto di vista normativo e legale, la richiesta di sottoporvisi viene regolarmente soddisfatta in seguito ad un percorso che permette appunto, alla persona che la richiede, di prenderne pienamente coscienza, in modo tale che l’eutanasia stessa risulti quindi in tutto e per tutto una scelta libera e consapevole.

Fatto salvo il concetto di base, esistono poi anche diverse “declinazioni” dello stesso termine eutanasia nella concezione popolare: si parla di “eutanasia passiva” quando il medico si astiene dal praticare cure volte a tenere ancora in vita il malato; di “eutanasia attiva” quando il medico causa, direttamente, la morte del malato; di “eutanasia attiva volontaria” quando il medico agisce su richiesta esplicita del malato.

In realtà le diverse sfumature riportate in precedenza, da un punto di vista medico e normativo, sono da considerare sbagliate o per lo meno imprecise. L’eutanasia viene infatti spesso utilizzata come sinonimo di “suicidio assistito”, “sedazione palliativa profonda” e “sospensione dei trattamenti”, ma tale non è: sulle loro differenze è opportuno porre massima attenzione.

Quando parliamo di “suicidio assistito” intendiamo l’atto del porre fine alla propria esistenza in modo consapevole, mediante l’autosomministrazione di dosi letali di farmaci da parte di un soggetto che viene appunto “assistito” da un medico (in questo caso si parla di suicidio medicalmente assistito) o da un’altra figura che rende disponibili le sostanze necessarie.

Per quanto le due pratiche siano accomunate dalla volontarietà e dall’esito finale, esistono importanti differenze da tenere in considerazione: in primo luogo, l’eutanasia non necessita della partecipazione attiva del soggetto che ne fa richiesta, mentre il suicidio assistito sì, perché prevede che la persona malata assuma in modo indipendente il farmaco letale.      In secondo luogo, l’eutanasia richiede un’azione diretta di un medico che somministra un farmaco, mentre il suicidio assistito prevede che il ruolo del sanitario si limiti alla preparazione del farmaco che poi il paziente assumerà per conto proprio.

Per ciò che concerne invece le differenze tra “eutanasia” e “sedazione palliativa profonda”, queste sono facilmente deducibili proprio dalla definizione ufficiale di “sedazione palliativa”. In poche parole, accanto alle differenze relative al tempo impiegato così come ai farmaci utilizzati per conseguire lo scopo previsto, ancor più importante è la differenza relativa all’intenzione delle due pratiche: mentre nell’ “eutanasia” e nel “suicidio assistito” l’intenzione è di porre termine alla vita, nel caso della “sedazione palliativa” è di garantire sollievo dalla sofferenza.

Non di poco conto infine sono anche le differenze vigenti tra la stessa “eutanasia” e la “sospensione dei trattamenti”: quest’ultima infatti risulta spesso intesa come una forma di “eutanasia passiva”, quando in realtà la volontà di rinunciare ad un trattamento non può in alcun modo essere associata direttamente alla volontà di porre fine alla propria vita; non a caso, la possibilità di “sospensione dei trattamenti” è consentita in tutti i paesi europei, a differenza dell’eutanasia.

Quando parliamo di “fine vita” intendiamo quindi l’eutanasia ed il suicidio assistito: in Italia non è possibile effettuare nessuna di queste due pratiche, rendendo quindi il “fine vita” legalmente illegittimo e quindi penalmente perseguibile.

Pro e contro dell’eutanasia: le opinioni dei cittadini
Per quanto il tema dell’eutanasia o, più in generale, del “fine vita” possa essere controverso e piuttosto delicato da affrontare e giustificare sotto l’aspetto medico e normativo, diverso accade con le svariate opinioni dei cittadini.                                                            Queste, infatti, nella maggior parte dei casi prescindono dall’aspetto legale e sanitario, privilegiando e rifacendosi quindi direttamente alla coscienza personale di ognuno, dove spesso l’influenza religiosa gioca un ruolo fondamentale.                                        Ponendo quindi da parte gli aspetti più “burocratici” della questione, abbiamo provato a mettere in evidenza le diverse posizioni in materia attraverso le opinioni e le considerazioni di alcuni semplici cittadini.

Il signor Giuseppe Bertorello, addetto alla copisteria presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma, ci dice la sua opinione in materia:

-Signor Bertorello, lei è pro o contro il tema dell’eutanasia e del “fine vita” in generale?                                                                                                                 -“Io sono contro l’eutanasia, perché credo che chi ci crea è il Dio padre e solo lui è padrone assoluto della vita: nessuno deve intervenire. Di fatto il peccato più grosso che esiste su questo mondo è che l’uomo abbia voluto toccare la vita: chi vuole cambiare quest’aspetto, commette un peccato enorme”.                                                                                      -Quali sono le sue motivazioni o ragioni personali a riguardo?                                 -“Come già detto in precedenza, sono contrario ad “eliminare” le persone, ma sono anche contro l’accanimento terapeutico: è un’esagerazione, uno ha anche il diritto di morire, però non di “farsi morire”. Ad esempio anche l’ex Cardinale di Milano, gesuita, nell’ultimo periodo della sua vita, si sarebbe dovuto procurare attraverso un’operazione un buco alla gola per poter respirare, ma nella consapevolezza che quest’operazione non gli avrebbe salvato la vita ma solo allungata di circa 6 mesi, ha preferito morire “naturalmente” senza l’accanimento terapeutico”.                                                                                            -Secondo lei, quali sono le principali motivazioni o ragioni per cui, nonostante i diversi casi e gli appelli susseguitesi negli anni, non si sia mai arrivati ad una normativa capace di tutelare una tale fattispecie?                                                     -“Perché non ci sarebbe più timore di Dio, non ci sarebbe più rispetto di questo: è l’uomo che guarda solo ai suoi interessi; che poi se permettessero questa cosa qui, di ammazzarne uno, ne ammezzerebbero dieci! Come l’aborto, come il divorzio: è un inizio della distruzione dell’uomo. Allora quando (gli uomini) saranno vecchi, si farebbe presto a dire che questo o quello non ragionano più: quindi poi lo prenderebbero e lo ammazzerebbero”.                    -Come valuta una possibile regolamentazione di questa pratica in futuro?              -“Per me non devono portarla avanti, non è giusto interrompere la vita”.                            -Secondo lei, è giusto perseguire penalmente i soggetti terzi che si adoperano e aiutano i diretti interessati ad esaudire la propria volontà circa il “fine vita”?         -“E’ giusto perché aiutano un suicidio, aiutano un omicidio: queste persone di fronte a Dio sono responsabili. Quindi sono contro questa gente che porta, convince queste persone a morire: fanno male, è sbagliato; parlo in riferimento alle leggi civili in materia, che non reputo giuste, quelle di Dio sono giuste”.

Sempre presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma, abbiamo incontrato Riccardo Ramadori, uno studente laureando in pedagogia di 24 anni nonché operatore del servizio civile, che ci dice la sua riguardo al tema dell’eutanasia e del fine vita più in generale

-Lei è pro o contro il tema dell’eutanasia e del “fine vita” in generale?                    -“Io sono pro”.                                                                                                              -Quali sono le sue motivazioni o ragioni personali a riguardo?                                  -“Nonostante io ritenga la vita un principio sacro, in alcuni casi, come quelli di persone che si trovano in stato vegetativo, allora lì il suicidio rientra tra le opzioni per agevolare il passaggio di queste persone verso un alleviamento del dolore che provano rispetto al tipo di vita che stanno conducendo”.                                                                                      -Secondo lei, quali sono le principali motivazioni o ragioni per cui, nonostante i diversi casi e gli appelli susseguitesi negli anni, non si sia mai arrivati ad una normativa capace di tutelare una tale fattispecie?                                                    -“Penso che un ruolo fondamentale, quì in Italia, lo abbia giocato la Chiesa Cattolica; per questa la vita è intoccabile, sia sul tema dell’aborto che su quello dell’eutanasia: in ogni caso, in qualunque caso, la vita è vita, è sacra, è un dono del Signore e solo lui la può interrompere. Credo che la Chiesa giochi un ruolo di fondamentale importanza nel bloccare questo tipo di iniziative”.                                                                                                -Come valuta una possibile regolamentazione di questa pratica in futuro?               -“La valuto sicuramente con un’accezione positiva; però credo che nella regolamentazione di questa, vadano selezionati accuratamente i casi in cui l’eutanasia può e non può essere applicata: ad esempio per ciò che riguarda il suicidio assistito di persone in stato vegetativo, incurabili, in quel caso credo sia un diritto fondamentale della persona accedere a questo tipo di “cura” “.                                                                                                -Secondo lei, è giusto perseguire penalmente i soggetti terzi che si adoperano e aiutano i diretti interessati ad esaudire la propria volontà circa il “fine vita”?         -“No assolutamente no, perché credo sia un diritto fondamentale della persona: quando questa è impossibilitata a vivere, può scegliere di non vivere, perché quella non è vita. Nel caso opposto invece, ovvero quando parliamo di una persona “sana”, non avente problemi fisici e quindi non impossibilitata a vivere in un certo modo, allora lì entriamo in un ambito diverso: in questo caso non sono d’accordo, ciò potrebbe mandare in confusione la società attuale in cui ci troviamo.”

In conclusione

Quello dell’eutanasia e del fine vita rientra sicuramente tra i temi più divisivi e ambivalenti che la coscienza popolare del nostro paese si troverà ad affrontare di qui a poco: ciò che rende particolarmente aspra una tale questione è sicuramente il fatto per cui non vi sia una posizione “più giusta” da poter innalzare sulla base delle diverse argomentazioni portate a sostegno, laiche o religiose che siano.

Quella dell’eutanasia appare infatti sempre più come una scelta direttamente collegata all’etica e quindi alla coscienza personale dei diretti interessati: elementi che sappiamo non poter giudicare concretamente sulla base di semplici “parametri” normativi o medici, in quanto la stessa etica, così come la coscienza, variano di persona in persona.

Quello che appare evidente invece, è la necessità di non ignorare e quindi di trattare apertamente il tema, al fine di pervenire ad una sua precisa regolazione, evitando così che la responsabilità di una simile pratica ricada su individui rei di aver esclusivamente soddisfatto la volontà del diretto interessato.

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