Nell’agosto di 77 anni fa il mondo faceva la conoscenza degli ordigni nucleari, il Giappone li provava sulla propria pelle. Il 6 e il 9 agosto 1945 gli Stati Uniti sganciavano due bombe nucleari prima su Hiroshima, poi su Nagasaki, cambiando per sempre la concezione di guerra e ponendo fine, nel peggiore dei modi, al conflitto più letale della storia umana. Da quel momento, nessun’arma di questo tipo è stata più utilizzata, tuttavia, viviamo con la paura costante che se dovesse scoppiare un’altra guerra di quelle dimensioni, sarebbe senza dubbio l’ultima.

Il quadro del 1945

A metà degli anni 40 il mondo viveva una delle pagine più buie della sua lunga storia: poco più di venti anni dopo il primo conflitto mondiale ne era scoppiato un secondo, ancora più letale e distruttivo, che aveva visto deportazioni, campi di sterminio di massa, bombardamenti a tappeto ed orrori di ogni genere. Non c’era un angolo del globo dove non si fosse combattuto e all’inizio del 1945, sul fronte europeo, la Germania nazista era ormai stretta dai due fuochi degli Alleati ad ovest e dei Sovietici ad est, mentre l’Italia era spaccata a metà tra la Repubblica di Salò, filotedesca, e il centro-sud occupato dagli Alleati. Il terzo fronte aperto era nell’est e sud-est asiatico, dove gli Stati Uniti combattevano il Giappone. Quest’ultimo aveva inesorabilmente coinvolto gli Stati Uniti nella guerra quando nel 1941 aveva attaccato la base americana di Pearl Harbor, nelle Hawaii, per poi iniziare una rapidissima espansione nel sud-est asiatico, zona di influenza anche statunitense. Tuttavia, nel 1942, una volta riorganizzate le forze, in particolare la flotta distrutta a Pearl Harbor, gli statunitensi avevano dato il via alla controffensiva, scandita dalla battaglia delle Midway dove sconfissero la marina giapponese. All’inizio del 1945 gli Stati Uniti avevano ormai portato a termine la riconquista del sud-est asiatico ma il Giappone non accennava ad arrendersi, anzi, la guerra si era fatta sempre più brutale e crudele: gli americani avevano distrutto la flotta nipponica e tagliato i rifornimenti energetici, i giapponesi rispondevano con mezzi disperati come gli attacchi aerei kamikaze. Ad inasprire il conflitto era anche una componente razziale presente da entrambe le parti: la retorica razzista americana nei confronti dei giapponesi sembrava quasi “autorizzarli” a compiere ogni genere di orrore, dall’altra parte i giapponesi vivevano da decenni nella convinzione della loro superiorità ed invincibilità, sudditi di un imperatore divinizzato, e vedevano gli Stati Uniti come il simbolo della decadenza e della dedizione ai piaceri.

Il progetto Manhattan e il conflitto USA-Giappone

Nel 1939 un gruppo di fisici, tra cui Albert Einstein, aveva fatto recapitare una lettera al presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt, informandolo delle loro preoccupazioni riguardo i progressi scientifici degli scienziati nazisti sulla fissione nucleare, che avrebbe potuto portare alla costruzione di un’arma di distruzione di massa. Roosevelt creò una commissione di ricerca per investigare la possibilità della creazione di un’arma dal potenziale inaudito e nonostante i primi anni i progressi furono minimi, anche grazie a varie ricerche svolte contemporaneamente nel resto del mondo, la commissione prese la forma di quello che è passato alla storia come “Progetto Manhattan”, che arrivò a contare circa 130.000 dipendenti.

Nonostante la vittoria americana sembrasse ogni giorno più vicina, il Giappone non accennava ad arrendersi, anzi. Tutta la popolazione era dedita alla guerra, dopo anni di propaganda era convinta della propria superiorità e pronta a sacrificarsi per l’imperatore. Quest’ultimo in quel momento aveva poca voce in capitolo, ad avere in mano il potere erano i militari, che esercitavano un controllo asfissiante anche sulla vita quotidiana dei cittadini, con un sistema di controllo reciproco che consegnava alle autorità i dissidenti. Proprio per questi motivi, si sollevò la questione della fine della guerra: l’invasione del Giappone sembrava l’unica via, ma la resistenza disperata dei nipponici spaventava gli americani, che volevano evitare perdite eccessive. Neanche un bombardamento a tappeto su Tokyo aveva piegato la resistenza, con il lancio di 1.600 tonnellate di esplosivo incendiario su una città strutturata in legno, che sterminò circa 100.000 persone.

Tuttavia, gli statunitensi continuavano a guadagnare terreno e l’operazione “downfall” (nome in codice per l’invasione) era pianificata e pronta all’esecuzione. In un momento cruciale come questo però, venne a mancare il presidente Roosevelt, leader indiscusso degli Stati Uniti fino a quel momento e faro per la politica estera. Si ritrovò così in carica il vicepresidente, Harry Truman, che però non godeva della totale fiducia del defunto presidente e quindi era spesso stato tenuto all’oscuro di alcune dinamiche. Ad esempio, non era a conoscenza del “progetto Manhattan”. Oltre a ciò, aveva poca esperienza in politica estera e allargò notevolmente il numero di persone a cui chiedere un parere.

Nel frattempo, i giapponesi avevano correttamente previsto i punti di sbarco americani e vi avevano ammassato più del doppio delle truppe previste dagli statunitensi, dando fondo a tutte le risorse. Anche se la popolazione e l’esercito mostravano segni di cedimento e i disertatori si facevano numerosi, il regime militare non considerava la resa come opzione. Il 16 giugno 1945, quando i tedeschi erano già stati sconfitti, gli USA testavano la prima bomba atomica della storia, nel deserto del New Mexico. L’imperatore Hirohito aveva anche avviato dei contatti con l’Unione Sovietica ai fini di una mediazione per uscire dalla guerra. Questo, insieme con le difficoltà di un’invasione aereonautica, convinse il presidente Truman ad utilizzare l’arma, appoggiato dagli alti comandi dell’esercito, che vedevano anche l’opportunità di mettere in guardia i sovietici.

Il punto di non ritorno

La dichiarazione di Potsdam, con la quale le potenze alleate chiedevano la resa incondizionata del Giappone, fu rifiutata e il 6 agosto 1945 l’Enola Gay sganciò la bomba atomica “Little Boy”, che alle 8.15 uccise sul momento tra le 70.000 e le 80.000 persone, radendo al suolo la città. Migliaia di persone morirono nelle ore seguenti a causa dell’esposizione alle radiazioni gamma, 17 volte superiore alla dose letale. Il Giappone ne uscì stordito, senza rendersi conto di ciò che era davvero successo, ma trovandosi ad affrontare la devastazione più totale. I primi rapporti giunti a Tokyo parlavano di un’esplosione con una luce accecante e di una città cancellata. Eppure, gli alti comandi giapponesi non cedevano.

A complicare una situazione disperata ci pensarono i sovietici, che invasero la Manciuria la mattina del 9 agosto, rompendo il patto di neutralità e stringendo il Giappone tra due fuochi con l’obiettivo di sedersi al tavolo delle trattative riguardanti il sud-est asiatico. Nel frattempo, il Primo Ministro Suzuki, ormai convinto che la resa fosse l’unica soluzione, aveva messo insieme un consiglio con gli alti comandi militari per decidere sulla dichiarazione di Potsdam. Il verdetto fu di 3 favorevoli e 3 contrari. Nel frattempo, a Nagasaki, gli Stati Uniti sganciavano “Fat Man”, secondo ordigno nucleare che uccise all’istante tra le 35.000 e le 40.000. Le vittime totali dei due bombardamenti sarebbero diventate circa 200.000 nei mesi successivi. Negli anni successivi è difficilmente calcolabile. La situazione oltremodo disperata portò il Primo Ministro Suzuki a rimettere la decisione alle mani dell’imperatore, che fino a quel momento aveva svolto una funzione prettamente simbolica. Hirohito si rivolse per la prima volta al popolo giapponese il 15 agosto alla radio nazionale per pronunciare le parole che mai il Giappone avrebbe pensato di ascoltare: nonostante la disobbedienza di alcuni militari e un tentativo di colpo di stato, il paese si arrendeva totalmente agli Stati Uniti. Se l’obiettivo statunitense era di porre fine alla guerra, era stato raggiunto. Il mondo però non sarebbe stato più lo stesso.

Il nucleare, oggi e il futuro

Da quell’agosto del 1945 è divenuto chiaro a tutti che il mondo non avrebbe visto la fine di un’eventuale terza guerra mondiale. Se ad oggi quelli restano gli unici due ordigni nucleari mai usati in guerra, i momenti di tensione non sono mancati e, purtroppo, non mancheranno negli anni a venire. La Guerra Fredda ha tenuto il pianeta in ostaggio sotto la minaccia di una guerra nucleare, toccando l’apice della tensione durante la crisi di Cuba, ma dalla caduta del muro di Berlino le minacce non sono mancate. Se lo scacchiere geopolitico ha visto per anni il dominio degli Stati Uniti e dei suoi alleati e i primi anni Duemila hanno portato nuove preoccupazioni, come la guerra al terrorismo, l’emergere della potenza cinese così come il prepotente ritorno della Russia di Putin non fanno dormire sonni tranquilli. Lo abbiamo visto pochi mesi fa, agli inizi del conflitto russo-ucraino: le relazioni russo-statunitensi non sono mai state così tese dai tempi della Guerra Fredda e l’umanità intera ha temuto uno scontro aperto, scongiurato in ogni modo. In tutto ciò, gli Stati Uniti, potenza che si erge a portatrice dei valori di democrazia e libertà, è l’unica fino ad oggi ad aver preso la decisione di utilizzare due ordigni nucleari su due città, portando via decine di migliaia di vite in una frazione di secondo, e chissà quante negli anni a venire.

Sono passati 77 anni e il mondo è cambiato, ad oggi sembra difficile l’utilizzo di un’arma atomica, poiché si è consapevoli che un’eventuale reazione a catena porterebbe ad un olocausto nucleare. Eppure, ce ne sono più di 15.000 a disposizione dei 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e non solo (India, Pakistan e Corea del Nord solo per citarne alcuni). Inoltre, gli ordigni odierni hanno una potenza distruttiva immensamente superiore a “Little Boy” e “Fat Man”: in breve, abbiamo creato e teniamo pronte le armi per auto-estinguerci. Basta questo per riflettere.

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