Il linguaggio volgare, la sessualità onnipresente e ostentata (nonostante l’assenza di nudi espliciti), la blasfemia dell’amore tra un’atea e un prete. Insomma, quanto di peggio possa esistere per un bigotto. Eppure, dietro tanto rumore, Fleabag è critica implicita, è il pensato non detto, è umanità sottile e fragile ma consapevole. Fleabag trasuda femminismo, alla ricerca di un equilibrio tra la volontà di una libertà sfrenata e la tendenza costretta e radicata al silenzio, tra critica e amore denso verso il movimento. Ebbene, qual è la rappresentazione del femminismo in Fleabag?

Fleabag è una serie televisiva britannica scritta e creata da Phoebe Waller-Bridge, basata sulla sua omonima tragicommedia teatrale. La serie (2016-2019), prodotta dalla Two Brothers Pictures per il canale digitale BBC 3 in co-produzione con Amazon Studios, si compone di due stagioni da sei episodi ciascuna. Ambientata a Londra, Fleabag è la storia di una giovane donna che veleggia tra le correnti ostili della vita. Una storia apparentemente ordinaria ma capace dello straordinario, unica nell’abilità della sceneggiatrice di rappresentare con grande accuratezza e realismo la complessità emotiva della natura umana attraverso il quotidiano. Sul significato del nome della protagonista, nonché della serie, Phoebe Waller-Bridge spiega in un’intervista per This Morning: “Una bettola (fleabag motel) è grezza attorno ai bordi e un po’ un disastro. Volevo chiamarla così, volevo che il suo personaggio e la sua apparenza esterna mostrassero che lei ha il controllo della sua vita quando in realtà non è così” (t.d.a).

Un po’ un disastro è anche il suo rapporto con il femminismo. La stessa Fleabag si definisce in più occasioni “una cattiva femminista”: “Ho la terribile sensazione che io sia una donna avida, pervertita, egoista, apatica, cinica, depravata, moralmente in bancarotta che non può neanche definirsi femminista” (stagione 1, episodio 1, t.d.a.). Eppure, la presenza costante di uno sguardo al femminile e il rapporto che Fleabag costruisce con lo spettatore rivolgendosi spesso alla telecamera consentono al pubblico di riconoscere che la protagonista non è nulla di tutto ciò. O meglio, che Fleabag non è soltanto questo. Grazie alla frequente rottura della quarta parete, lo spettatore diventa ospite delle sue riflessioni, unico testimone di ciò che Fleabag pensa ma non pronuncia quasi mai. Questa tecnica narrativa induce il pubblico a guardare oltre gli agiti e i pensieri perversi della protagonista per approdare a una profonda comprensione della sua fragilità umana. Qui risiede la rivoluzione della serie: il feminine gaze scorge nei difetti di Fleabag una donna vera, colma di difetti e contraddizioni, e proprio per questa ragione empatizza con lei, si sottrae allo standard e al giudizio maschile del femminile. In un’intervista per Woman’s hour su BBC Radio 4 sul rapporto di Fleabag con il femminismo, Phoebe Waller Bridge spiega: “Il suo rapporto con il femminismo è così complesso perché la rende vulnerabile, non ne comprende le regole. Sa fino al midollo che è ciò che vuole essere e che vuole identificarsi come femminista ma sente che sta costantemente deludendo il femminismo” (t.d.a.). La sceneggiatrice prosegue sulla propria relazione con il femminismo: “È molto simile […] giacché non ne conosco bene le regole ma ho profondamente a cuore le donne, la parità e i principi fondamentali del femminismo. Sono poi leggermente terrorizzata dalle sfumature e dal fatto che ci sono trappole là fuori. E tutt’ora mi sento così. Persino quando mi viene chiesto di parlarne il mio cuore inizia a battere un po’ più velocemente perché so che ci sono mine nelle quali si può incappare” (t.d.a.).

In effetti, Phoebe Waller-Bridge non ha dovuto attendere molto per ricevere le prime critiche. C’è chi ha visto in Fleabag una deviante romanticizzazione dell’autodistruzione, una dannosa celebrazione della disperazione femminile nel quadro del femminismo dissociativo. Con quest’ultima espressione si fa riferimento a una forma del femminismo propria di tutte quelle donne esauste al punto da rinunciare persino alla rabbia: si assiste così alla cessazione della lotta attiva che viene sostituita da un sentimento di apatia e rassegnazione verso le discriminazioni di genere. Il femminismo dissociativo, dunque, consiste in un processo di interiorizzazione di quel rancore dovuto al ruolo cui la società patriarcale relega la donna e ai soprusi che ne derivano. Infatti, sebbene il femminismo liberale possa ritenersi soddisfatto dei risultati finora raggiunti, il femminismo intersezionale è ben consapevole dello stato incompleto della rivoluzione femminile. Gli storici traguardi dell’ottenimento del suffragio universale e dell’accesso all’istruzione e al mercato del lavoro, sono garanzie tutt’altro che sufficienti in una società complessa come quella attuale. Persistono le discriminazioni di genere sul lavoro, le disparità nell’accesso al mercato occupazionale e nelle retribuzioni. Persistono le forme di controllo e di oggettificazione del corpo femminile, dall’imposizione di standard estetici irrealistici alla continua minaccia al diritto all’aborto. Persistono le violenze di genere, i femminicidi, il victim blaming e l’incapacità di costruire un sistema di effettiva tutela delle vittime che lavori tanto sulla prevenzione quanto sulla risposta. Per giunta, le discriminazioni si moltiplicano e si intrecciano per i soggetti appartenenti a gruppi minoritari o a categorie già marginalizzate che, al di là della questione di genere, subiscono le conseguenze derivanti dalla propria posizione socioeconomica, appartenenza etnica, fede religiosa, orientamento sessuale, identità di genere. Basti pensare alla pretesa di alcuni paesi occidentali di vietare alle donne musulmane l’uso del velo sul luogo di lavoro oppure a quel ramo del femminismo che ancora rifiuta la partecipazione delle donne transessuali alla propria battaglia. Il femminismo dissociativo nasce da qui, nasce dalla resa di fronte all’apparente impossibilità di smantellare questi e altri fenomeni così radicati e di ricostruire una società che non sia così intrinsecamente e sistematicamente patriarcale. Il distacco di Fleabag dalle azioni proprie e degli altri, la sua acquiescenza e mancata combattività di fronte alle ingiustizie che vive, sembrerebbero ricalcare il modus operandi del femminismo dissociativo. Si pensi a tutte le volte che Fleabag si estranea per rivolgersi alla telecamera, dissociandosi da ciò che la sopraffà e chiudendosi nel mondo dei suoi pensieri. Non mancano scene di prevaricazioni recanti un tale disagio e fastidio per lo spettatore da indurlo a sperare in una reazione plateale della protagonista. Ma lo sfogo non arriva quasi mai, Fleabag rimane tendenzialmente remissiva, silente.

Tuttavia, è proprio in questo silenzio che si rivela la componente femminista della serie. Un silenzio astuto, consapevole, critico. Fleabag è ricca di scene indici di femminismo e di condanna della società patriarcale seppur silenziose, manchevoli di dialoghi esplicitamente inerenti alla questione di genere. E anzi, forse è proprio dal silenzio di Fleabag che scaturisce la volontà di riscatto del pubblico. Lo spettatore non può che cogliere questi spunti e condividerne la portata critica: che il femminismo dissociativo sia invece associativo? Che la rivoluzione femminista non sia così esausta ed esautorata? Tra la prima e la seconda stagione della serie si sviluppa infatti un’evoluzione della stessa protagonista: Fleabag assume consapevolezza dei propri comportamenti nocivi e autosabotanti, impara a comunicare e a relazionarsi con se stessa e con gli altri, addirittura si innamora. Un passaggio esemplificativo di questo tacito urlo di critica si trova nella prima stagione (episodio 4), quando Fleabag e sua sorella Claire partecipano a un ritiro spirituale in un resort immerso nel verde. La prima regola? Non parlare mai. Così, mentre le due sorelle si immergono in questo viaggio introspettivo basato sulla quiete e la dedizione alle cure domestiche della villa (da bravi angeli del focolare), ecco che si odono delle urla. Le grida provengono da un edificio poco distante dove un gruppo di uomini che in passato sono stati attori di molestie sta seguendo un seminario per imparare a controllare la propria aggressività e ostilità nei confronti delle donne. La prima regola? Dare libero sfogo alle proprie emozioni anche urlando a squarciagola improperi contro l’altro sesso. Lo scarto dicotomico tra le due situazioni è lampante, come evidente è la critica che vi si cela: agli uomini è consentito estrinsecarsi, anche quando hanno commesso un sopruso; al contrario, “alle donne è ornamento il silenzio” diceva già l’Aiace di Sofocle. C’è poi il tema dell’oggettificazione dei corpi femminili. In una scena dell’ultimo episodio della prima stagione, fondamentale per l’evoluzione del personaggio principale che si realizzerà nella seconda stagione, Fleabag, preda di un’intima crisi, si mostra consapevole del ruolo giocato dal suo corpo, di come lo consideri l’unico strumento per ottenere ciò di cui ha bisogno. Eppure, se da un lato c’è la drammaticità della funzione che Fleabag attribuisce al sesso, dall’altro c’è la rappresentazione femminista compiuta da Phoebe Waller-Bridge della sessualità femminile. Nonostante nella serie la componente erotica sia onnipresente e senza filtri, mancano scene di nudi espliciti. Dietro questa scelta della sceneggiatrice sembrerebbe esserci la rivendicazione del diritto delle donne a una sessualità apertamente libera ma accompagnata dalla volontà di tutelare il corpo femminile, sottraendolo agli sguardi oggettificanti e agli irrealistici standard maschili. Standard e aspettative la cui pressione è incarnata nel personaggio di Claire: una donna ossessionata dal giudizio altrui, vittima di una mania di perfezionismo e di controllo, nevrotica nel tentativo di conciliare il successo lavorativo con l’immagine di brava moglie e madre. Ulteriore possibile esito della sottoposizione a questi standard è un sentimento di forte competitività tra donne (si guardi al rapporto tra Fleabag e la Matrigna) che talvolta sfocia in sessismo interiorizzato: in un mondo che risponde a logiche prettamente maschili e maschiliste, una donna riesce a raggiungere più facilmente posizioni di rilievo se pensa e agisce con le stesse modalità di un uomo. Non c’è quindi da stupirsi quando a capo di ambienti conservatori c’è una donna: da Margaret Thatcher a Giorgia Meloni, si tratta di figure femminili che non mettono a rischio lo status quo tanto caro ai tradizionalisti in quanto non si fanno portatrici delle istanze progressiste femministe, anzi addirittura ne prendono le distanze.

Dunque, a rendere Fleabag una serie emblematica del femminismo moderno è la rappresentazione di una protagonista ‘difettosa’. Phoebe Waller-Bridge è riuscita a costruire un personaggio realistico e complesso che non solo si sottrae alla raffigurazione maschilista e perfettista delle figure femminili, ma consente anche al pubblico di immedesimarsi proprio nei suoi difetti e nelle sue fragilità. Lo spettatore comprende e apprende attraverso le difficoltà di Fleabag e sente una spinta a solidarizzare con lei. Il finale della serie concede alla platea un amaro respiro di sollievo: nonostante l’ennesimo evento straziante, Fleabag è ormai consapevole di possedere gli strumenti per affrontarlo e continuare a percorrere la propria strada. Guarda verso la telecamera, scuote la testa, sorride ma non parla, volta le spalle e cammina, sola. Non ha più bisogno di dissociarsi, di fuggire da ciò che le avviene intorno quando si sente sopraffatta. Ora si conosce, conosce il proprio dolore e lo vive. Fleabag ha trovato se stessa. E il testo di “This Feeling” degli Alabama Shakes, sulle cui note si conclude l’ultimo episodio, lo conferma: “I just kept hoping / The way would become clear / I spent all this time tryna play nice and fight my way here / See, I’ve been having me a real hard time / But it feels so nice to know I’m gonna be alright  […] So please, don’t take this feeling / I have found at last / If I wanted to, I’d be alright”.

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