L’emigrazione italiana: la storia, le cause e le conseguenze per l’individuo
La Treccani definisce il fenomeno migratorio come un “fenomeno sociale in base al quale singole persone o gruppi si spostano dal luogo d’origine verso un’altra destinazione, solitamente con la finalità di reperire nuove occasioni di lavoro”. L’immigrazione è al centro del dibattito politico italiano e più in generale mondiale ormai da anni. La crescita demografica è infatti squilibrata – mentre l’Europa sta diventando un continente sempre più anziano, nel 2050 un bambino su tredici sarà nigeriano – e questo sta provocando e inevitabilmente provocherà anche in futuro importanti spostamenti internazionali. Una delle principali sfide del primo secolo del 2000 è dunque rappresentata dalla governance dei moti migratori, senza la quale si rischierebbero conseguenze devastanti anche da un punto di vista sociale.
La storia dell’emigrazione italiana
La posizione geografica italiana ha reso il Bel Paese una delle principali destinazioni dei moti migratori contemporanei. L’Italia, però, non è sempre stata una terra di approdo, bensì è storicamente una terra di partenza. Già prima dell’Unità, infatti, molti “italiani” partirono non solo per viaggi di natura commerciale o esplorativa, ma anche per stabilirsi in altri luoghi. L’Unità d’Italia del 1861 fece nascere il Paese da un punto di vista formale, ma come disse D’Azeglio: “Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani”. Le ingenti spese belliche sostenute dai Savoia negli anni precedenti all’impresa di Garibaldi furono ripagate attraverso le tasse versate dai nuovi territori del Sud Italia e questo comportò un’ancor più marcata differenza economica tra l’ex Regno delle Due Sicilie e il Nord. Le stesse regioni settentrionali erano però indietro da un punto di vista economico rispetto ad altri Paesi europei e questo fece nascere – dal 1861 all’ascesa del fascismo – la c.d. Grande Emigrazione.
Tra il 1876 e il 1900 emigrarono un totale di circa 5,5 italiani. Emigrare aveva però un costo poco accessibile e, infatti, in questa prima fase circa il 58% delle partenze era rappresentato dagli abitanti del Piemonte, della Lombardia, del Friuli Venezia-Giulia e del Veneto, le regioni più ricche d’Italia. Tra il 1900 e il 1914 il numero salì a circa 8,8 milioni, di cui 870.000 nel solo 1913. Mentre i migranti del Nord continuarono a spostarsi (temporaneamente) soprattutto nei Paesi europei, i migranti del Sud aumentarono significativamente e divennero soprattutto migranti permanenti. Le mete più diffuse erano gli Stati Uniti, l’Argentina, il Canada, il Brasile, il Venezuela e l’Australia, sebbene in termini assoluti la maggior parte degli Italiani preferirono rimanere in Europa.
L’emigrazione non solo allentò la pressione demografica, migliorando il rapporto tra popolazione e risorse, ma con le rimesse degli emigrati migliorò significativamente la situazione economica del Paese, soprattutto nelle regioni meridionali dove l’assenza dello Stato iniziò a far diventare sempre più influente un altro fenomeno sociale che prende nome diversi in base alla regione di riferimento: la Mafia, la Camorra e la ‘Ndrangheta. A seguito del fascismo e della Seconda Guerra Mondiale si aprì una nuova fase migratoria, la c.d. Emigrazione Europea che va dagli anni ’50 agli anni ’70 del ‘900. Le migrazioni verso il Sud America calarono drasticamente già dagli anni ’50, in Australia calarono da dopo gli anni ’70, mentre gli USA continuarono ad esser gli unici ad attirare gli Italiani.
Il boom economico, infatti, ha cambiato le prospettive di molti italiani. La grande crescita economica del “Triangolo industriale” iniziò a dare la possibilità ai meridionali – in un’Italia che grazie alla diffusione della televisione cominciava a parlare la stessa lingua – di spostarsi al Nord ed evitare viaggi transoceanici senza conoscere la lingua del posto. Tra il ’51 e il ’61 circa 2 milioni di persone si spostarono verso il Nord Italia, facendo aumentare la presenza di abitanti nelle città, ma anche il sovraffollamento delle abitazioni e i sentimenti antimeridionali degli abitanti delle regioni settentrionali. Alle migrazioni interne si aggiunsero quelle continentali. L’Europa stava faticosamente avviando un percorso che sfocerà nell’Unione europea e l’integrazione passò anche attraverso le migrazioni dei Paesi del Sud Europa verso quelli del Centro-Nord. Tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio degli anni ’80 partirono per la Francia circa 2 milioni di Italiani, per la Germania poco meno di 2 milioni, per la Svizzera circa 2.6 milioni, per il Belgio circa 500.000, per la Gran Bretagna circa 250.000.
A questi dati va aggiunto circa un milione di persone trasferitosi in altri Paesi. Dall’Unità di Italia al 1976 circa 12 milioni di Italiani sono emigrati in altri Paesi europei. Le emigrazioni italiane sono però cambiate nel corso del tempo. Se nel periodo della Grande Migrazione sono state perlopiù di carattere permanente, nel periodo della migrazione europea sono state perlopiù di carattere temporaneo. Dal 1980 in poi è cambiata ancora una volta la tipologia di migrazione. I molteplici fallimenti delle politiche governative – teoricamente volte a ridurre il gap tra Nord e Sud, ma sin dall’età giolittiana utilizzate soprattutto per ragioni clientelari – non hanno portato ad un aumento delle opportunità di lavoro nel Sud e dunque la maggior parte dei migranti sono ormai meridionali, altamente qualificati e molto giovani, che si trasferiscono soprattutto in Europa.
Le cause dell’emigrazione
Le migrazioni sono fenomeni che interessano molti aspetti della vita degli individui e di conseguenza sono anche uno degli argomenti più trattati da molte discipline. Uno degli aspetti più interessanti è relativo alle cause delle migrazioni e la principale teoria è quella dei push & pull factors. La spinta (push) è influenzata: dalle differenze di reddito tra le aree del pianeta; dagli sconvolgimenti ambientali; dalle guerre e le repressioni e dall’aumentato livello di formazione che spinge a cercare da altre parti stipendi più alti e maggiori possibilità di lavoro. I fattori che influenzano l’attrazione verso un Paese (pull) sono: il fabbisogno di manodopera per i lavori meno graditi dagli autoctoni; corsie preferenziali per alcuni profili lavorativi qualificati; la presenza di quote di ingresso annuali regolamentate; le catene migratorie, ovvero collettività nazionali già insediate sul posto; la presenza di ONG a favore dei migranti.
Nel contesto italiano precedente agli anni ’90, i fattori che hanno spinto ad allontanarsi dalle proprie città di origine sono stati soprattutto relativi alla differenza di reddito (anche con il Nord Italia) e la possibilità di migliorare la propria condizione. Molti Italiani hanno deciso di emigrare nelle Americhe attratti dalla relativa facilità (eccezion fatta per il tragitto) di accesso e la necessità di manodopera. Come detto in precedenza, l’attuale emigrazione meridionale non è dovuta solo a questioni di carattere economico, ma anche ad un livello di formazione in continua crescita, non accompagnato da una crescita economica regionale. Proprio l’economia ha ripreso e sviluppato la teoria dei Push & Pull factors facendo nascere alcune teorie sull’emigrazione. Un primo approccio è quello Neoclassico. Secondo questa visione, sia da un punto di vista nazionale che internazionale si possono venire a creare degli squilibri demografici e salariali. Dalla regione in cui la popolazione è più numerosa e con salari più bassi tenderanno ad emigrare persone che andranno a coprire il fabbisogno di manodopera della regione di destinazione, dove la crescita demografica è bassa e i salari sono alti.
In questo modo da un lato l’offerta di lavoro diminuisce e crescono i salari, mentre nella regione di arrivo diminuiranno i salari e l’offerta di lavoro aumenterà. In poche parole, l’approccio Neoclassico applica il principio di domanda e offerta in ambito macroeconomico. Un altro approccio è quello dualista. La teoria del doppio mercato del lavoro parte da un’importante premessa: il livello dei salari non riflette solo l’equilibrio tra domanda e offerta, ma esiste anche un livello di prestigio legato ad un’occupazione. Gli abitanti del Paese di riferimento sono interessati solo a lavori in grado di migliorare la loro posizione sociale, mentre non sono interessati al mercato secondario del lavoro. Gli immigrati attribuiscono meno importanza alla posizione sociale e dunque accettano più facilmente lavori che hanno salari più bassi e minori garanzie.
Il loro ruolo in questa visione è dunque complementare e non sostitutivo, quindi questa teoria confuta la tesi del “ci rubano il lavoro” in quanto gli immigrati tendono a coprire lavori non voluti dagli autoctoni e in cui c’è bisogno di manodopera. Un ultimo approccio è quello della World System Theory. Secondo questa visione il mondo è diviso in tre diverse zone: centro, semiperiferia e periferia. Il sistema capitalistico mondiale spinge i lavoratori a migrare seguendo forze centripete, mentre le zone periferiche vengono svuotate e sfruttate per le materie prime. Queste teorie non affrontano esaustivamente il tema relativo alle cause della migrazione, ma sono in grado di dare un’idea sulla vastità della letteratura sul tema.
Le conseguenze delle migrazioni
Le scienze sociali si sono occupate molto del tema delle migrazioni, cercando di indagare gli effetti sul singolo di questa esperienza. Simone Marino è un antropologo italiano che si occupa ormai da anni di emigrazione e di identità etnica. In particolare, si occupa dell’immigrazione calabrese a Adelaide, in Australia e le sue ricerche hanno portato alla stesura di un libro chiamato “Intergenerational Ethnic Identity Construction and Transmission among Italian-Australians”. Marino ha scritto anche per il nostro giornale affrontando – tra gli altri – il tema della “doppia assenza”. Questa condizione è stata definita da Abdelmalek Sayad come quella situazione in cui il migrante non sente più di appartenere al proprio Paese di origine, ma allo stesso tempo non sente di appartenere neanche al suo nuovo Paese. In una serie di interviste con immigrati di prima generazione, Marino ha potuto riscontrare come la doppia assenza appartenga anche agli immigrati calabresi, partiti per l’Australia negli anni ’50 e ’60.
L’aspetto più interessante che ha potuto riscontrare il professore dell’University of South Australia è il fatto che coloro che continuano a suonare la musica tradizionale calabrese sono anche coloro che riescono a gestire meglio il disagio continuo derivante dalla doppia assenza. La musica li aiuta infatti a rinchiudersi in uno spazio-tempo irreale e mitizzato (l’Italia e soprattutto la Calabria degli anni ’50-’60) che li “distrae” dalla loro attuale dimensione. Anche in altre sue pubblicazioni, Marino ha sottolineato l’importanza dell’attaccamento alla tradizione del luogo di origine per creare un ambiente familiare oltreoceano, l’etno-comunità. In “Tradition and identity: a case study of multigenerational Calabrian families living in Adelaide, South Australia” Marino e Giancarlo Chiro hanno voluto riprendere la teoria di Misiti (1994) – per cui la cultura calabrese degli immigrati australiani era da considerarsi ormai prossima a disperdersi – e osservare circa venti anni dopo i possibili cambiamenti dello stile di vita dei calabresi australiani. La ricerca è stata effettuata su un gruppo di studio composto sia da donne che da uomini appartenenti alla prima, alla seconda e alla terza generazione di migranti.
La ricerca ha dimostrato come tuttora esista un forte sostegno per il mantenimento e la trasmissione dei valori culturali e delle pratiche sociali tradizionali calabresi. Questo è possibile in particolare grazie a fitte reti di rapporti sociali, alleanze familiari ed infine pratiche religiose. Per quanto riguarda il “social networking” – riagganciandosi alla teoria dei push & pull factors – è da sottolineare l’importanza della rete di rapporti sociali che si sono venuti a creare tra i migranti di prima generazione. Tale rete, infatti, ha permesso di far nascere un vero e proprio centro di accoglienza per i “paisani” arrivati successivamente e che è presente tuttora. La maggior parte dei calabresi a Adelaide risiede infatti nello stesso quartiere, vicino alla chiesa comune e dove sette volte l’anno la comunità si riunisce per feste patronali. Queste ultime continuano ad avere usanze anacronistiche, in grado però di riaffermare l’identità culturale della comunità calabrese e creare un alter-ego del villaggio calabrese.
Un ultimo importante aspetto è quello relativo alle alleanze familiari, affrontato anche nella pubblicazione: “Comparatico ad an emblematic form of social capital among Austalian families originating from rural Calabria living in Adelaide, South Australia”. Per quanto riguarda i matrimoni, storicamente in Calabria erano combinati e strategici, dunque volti a conservare o migliorare il proprio status. Questa componente è stata in parte recepita dai calabresi in Australia, sostituendo però la componente economica con quella culturale. La maggior parte dei calabresi si sposa infatti con altri calabresi e questa dinamica, sebbene in parte attenuata, è tuttora presente nella comunità. Il matrimonio è dunque un importante mezzo per rafforzare la rete di alleanze familiari, ma il mezzo più importante è rappresentato tuttora dal comparatico.
Nella cultura cattolica, il compare è la persona che promette di condividere la responsabilità dell’educazione del bambino con i genitori, dunque non è un legame sociale basato sulla consanguineità o sul matrimonio, ma quello che gli antropologi definiscono “parentela fittizia” o, più nello specifico, “parentela spirituale”. Questa parentela spesso è da considerarsi più forte di quella basata sul sangue, tanto che nel Sud Italia si dice che il legame “di San Giovanni” lega le famiglie per nove generazioni. Nel 1970, Cronin ha esaminato la situazione siciliana in Australia, osservando come il comparatico non fosse più un mezzo per stringere alleanze.
Marino, al contrario, ha potuto constatare come questo legame sia ancora molto presente nella comunità calabrese in Australia. Anche gli immigrati di terza generazione continuano, infatti, a frequentare i propri padrini e madrine. Il comparatico, inoltre, non ha solo una funzione integrativa, ma anche gerarchica: in alcune attività familiari, infatti, le mansioni sono divise non solo rispetto al genere, ma anche rispetto a rapporti gerarchici basati sul comparatico. Lo studio di Simone Marino dimostra dunque come la comunità calabrese – a differenza di quella siciliana, ad esempio – non si sia integrata pienamente nel tessuto sociale australiano. Ha costruito, invece, una vera e propria subcultura, ancorata a tradizioni, lingua e simboli appartenenti ad un villaggio calabrese degli anni ’50-’60 fittizio e apparentemente perfetto.
Intervista all’antropologo Simone Marino
1) I suonatori di prima generazione gestiscono il disagio continuo attraverso la musica, che è in grado di riportarli nella loro Calabria. Questa visione idealizzata della Calabria è stata trasmessa anche alle successive generazioni attraverso la musica e i racconti? Che visione hanno le nuove generazioni della Calabria?
La prima generazione dei miei partecipanti ‘suonatori’ ha provato a trasmettere ai figli quello che Bourdieu chiama il ‘capitale culturale’, non solo la lingua (nella fattispecie il dialetto), ma soprattutto la musica. Tuttavia, segnatamente la seconda generazione, che adesso ha dai 50 ai 60 anni, avendo subito bullismo e razzismo a scuola ha sviluppato una sorta di italofobia (come diceva il prof Chiro, anch’egli di seconda generazione, con cui ho prodotto delle pubblicazioni sull’argomento). Negli anni 60/70 venivano apostrofati dispregiativamente wogs e derisi dai compagni di scuola perché portavano in classe panini “puzzolenti”. E’ comprensibile quindi che quasi la totalità di loro, per anni, non solo non amava la propria italianità, ma ha addirittura tentato di nasconderla anglicizzando il proprio nome. Al contrario, è la terza e quarta generazione dei miei partecipanti che ha vissuto e sta vivendo un processo di ethnic revival grazie ai racconti e all’esempio dei nonni. Molti giovani di origine italiana si definiscono italiani e questa loro italianità la manifestano attraverso il possesso di motori italiani, oggetti, strumenti musicali quali il tamburello e l’organetto che hanno imparato a suonare dai nonni, tramite il linguaggio, con espressioni e battute nel dialetto di origine, e vestendo abiti di foggia italiana. Essere e sentirsi italiano in Australia oggi è totalmente diverso dalla percezione che gli italiani avevano negli anni 60/70.
Se in passato ci si aspettava che gli immigrati si assimilassero al gruppo dominante, nella fattispecie all’Australia anglosassone e, come sosteneva Huber nei suoi studi sull’assimilazione culturale degli italo-australiani, essi per integrarsi dovevano metaforicamente passare ‘dalla pasta alla pavlova’ (che è un dolce tipico australiano), nei giovani si assiste ad un passaggio inverso (quindi dalla pavlova alla pasta), ossia una tendenza crescente verso il risveglio etnico della terza e quarta generazione di italo-australiani. Il modo di manifestare la propria italianità è spesso marcato e ostentato, in quanto essere di origine italiana (quindi come dicono loro: italiani) oggi in Australia è motivo di orgoglio. Questo è principalmente ascrivibile alla loro institutional positionality ovvero la percezione della posizione etnica degli individui del loro ‘essere nel mondo’ dettata dal ‘senso comune’ della società dominante (l’institutional positionality è ampiamente trattata nella mia pubblicazione del 2020 per Palgrave (Intergenerational Ethnic identity Construction and Transmission among Italian-Australians).
2) Il comparatico ha ancora una funzione sociale nella Calabria contemporanea o la si può annoverare tra quelle pratiche sociali anacronistiche per il Paese di origine, ma ancora rilevanti nella comunità calabrese/australiana?
I miei partecipanti provengono per lo più da piccoli centri del pedeaspromontano. Emigrando, hanno portato con sé le tradizioni degli anni 50 che hanno tenacemente mantenuto in Australia, dove sono stati accolti dalla comunità calabrese immigrata in precedenza. Per fare fronte alla loro condizione di emigrati ‘doppiamente assenti’ (assenti nel paese che hanno lasciato, ma assenti anche, metaforicamente, dalla vita australiana, poiché sprovvisti del capitale culturale dominante, come lingua e tradizioni del paese di destinazione), hanno attuato una strategia culturale creando una sorta di microcosmo della comunità di origine. Pertanto, nelle relazioni sociali hanno mantenuto gli usi e costumi del paese di origine, sposandosi e scegliendo padrini e madrine tra i paesani. Tali relazioni sociali e di comparatico nella Calabria contemporanea, sono meno praticate sebbene non del tutto scomparse.
3) Nello studio di Constance Cronin è emerso che i siciliani sono maggiormente integrati nella comunità australiana e meno ancorati alla tradizione e al comparatico rispetto ai calabresi. Secondo lei, quali fattori potrebbero aver contribuito all’insorgenza tali differenze?
Lo studio di Cronin risale agli anni 70. Era emerso dalla sua etnografia che i siciliani di Sydney erano maggiormente integrati e meno ancorati alla tradizione. Lo studio tra i miei partecipanti di origine calabrese ha dato esiti diversi. Questo può dipendere da molti fattori: dalla natura della catena migratoria. I miei partecipanti partivano da una zona specifica, alcuni paesi dell’Aspromonte, una zona isolata e rurale che ha metastoricamente affrontato il tema della subalternità assistendosi (talvolta ostacolandosi) ma sempre alimentando un network sociale che ottempera a tutte le esigenze migratorie (il viaggio, i contatti, il primo lavoro, il dopo lavoro, la ricerca della moglie, etc). Anche adesso il panorama geografico di Adelaide, per chi lo osserva, è ancora marcato dalle catene migratorie dei paesani (con i gruppi originari dalla Campania stanziati prevalentemente nelle periferie est, e i calabresi nelle periferie ovest e nord). Naturalmente adesso la distinzione non è più cosi netta.
Ritengo doveroso sottolineare che i risultati di uno studio dipendono anche dalla metodologia. Un’etnografia su campo deve essere completata, per esempio, dal crosschecking per verificare quello che i partecipanti hanno riferito. Non è raro che alcune informazioni date non corrispondano alla realtà o capita che alcuni partecipanti mentano per compiacere il ricercatore, per avere attenzioni e per motivi vari.
4) Lei ha scritto che alcune minoranze possono avere un alto grado di integrazione esterna ma bassa da un punto di vista privato. Questo fenomeno è riscontrabile anche nella comunità calabrese/australiana? E se si, potrebbe farmi alcuni esempi significativi in cui tale fenomeno è osservabile?
Il disequilibrio tra il pubblico ed il privato è il punto che maggiormente tocca la institutional positionality, la percezione della posizione etnica degli individui del loro ‘essere etnico nel mondo’ dettata da quello che pensa il ‘senso comune’ della società dominante. Per una serie di motivi un gruppo può manifestare la propria identità etnica più o meno apertamente. E quindi osserviamo che molte famiglie di origine italiana, da un punto di vista macro-sociologico, oggi, appaiono perfettamente integrati alle attività della vita sociale di Adelaide; parlano inglese, aderiscono al ‘senso comune dominante’, guardano il footy (football australiano) si recano allo stadio, organizzano barbecue al parco, giocano a cricket, etc. Tuttavia, allo stesso tempo, nella sfera meso (della comunità) o micro (dentro le mura domestiche) o durante alcune pratiche sociali famigliari e/o della comunità, mi riferisco ad esempio alla preparazione della salsa in famiglia, confezionare i salumi, andare tutti insieme alle feste sociali, alle funzioni religiose del santo patronale del paese o più ampiamente della regione di origine che vengono organizzate dai club, o ancora impegnarsi in tornei di bocce o di scopa e briscola (che attira anche molti giovani), si assiste ad una conformità di un altro senso comune, in cui le regole e le aspettative sono diverse; i valori sono diversi. In tutte le suddette manifestazioni, ovviamente, vi è spesso anche un lato performativo.
5) La prima notizia che si trova cercando “Adelaide” su internet è un articolo de “L’Espresso” in cui si parla dell’omicidio di Joseph Acquaro, noto avvocato difensore di esponenti della ‘Ndrangheta, ma anche membro del Reggio Calabria club. È noto inoltre come alcuni dei più importanti affari della ‘Ndrangheta siano concentrati in Australia. Gli Australiani come percepiscono la comunità calabrese? Quanto tale comunità è identificata come mafiosa?
Spesso per catturare l’attenzione del lettore si ricorre ad argomenti di cronaca nera e/o scandalistica. E’ tristemente noto che associazioni quali mafia e ‘ndrangheta siano largamente operanti anche fuori dall’Italia, e l’Australia non ne è avulsa, ciononostante per mia esperienza non mi risulta che gli australiani identifichino la comunità calabrese come mafiosa, quantomeno non nel ‘senso comune’.
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