L’HIMALAYA NASCOSTA: IL PRESAGIO DI UN NUOVO CONFLITTO FRA INDIA E CINA

Il 15 giugno venti soldati indiani sono stati uccisi durante uno scontro nella zona di Ladakh, tra le montagne dell’Himalaya. La loro sorte non è stata degna di nota nonostante potrebbe essere la nuova goccia che fa traboccare il vaso a livello internazionale. Questo perché le parti coinvolte sono due dei Paesi che stanno facendo e che faranno la differenza per il futuro economico e geopolitico mondiale. Si tratta infatti della Cina e dell’India, due stati a cui spesso sono attribuiti pesi di natura opposta tra loro.

La Cina vista come superpotenza, l’India considerata ancora come troppo indietro per poter competere con i giganti nel prossimo futuro. Tuttavia la realtà ha tutto un altro aspetto. Entrambi si sono fronteggiati per anni dimostrando di avere la stessa forza e caparbietà e le tensioni non si sono mai allentate. Se spesso questo tipo di scontri viene messo in secondo piano, col tempo questi si trasformano in veri pericoli per la stabilità internazionale. Pian piano la situazione va peggiorando e ciò che è accaduto qualche settimana fa non può e non deve essere ignorato. Potrebbe essere l’inizio di una lotta che farà paura a tutto il mondo.

COME TUTTO E’ INIZIATO

Le origini del conflitto risalgono ad un periodo anteriore alla Prima Guerra Mondiale. Tra il 1913 ed il 1914 si tenne una conferenza a Simla, nello stato di Himachal Pradesh a nord dell’India. I protagonisti sono il Regno Unito, la Cina ed il Tibet. Al tempo l’attuale Regione Autonoma del Tibet non era sottoposta al controllo della Cina e partecipò alla conferenza in maniera indipendente. Questo perché uno degli obiettivi su cui discutere era proprio la personalità giuridica del Tibet a livello internazionale.

Si giunse ad una conclusione che poneva la Cina in condizione di intervenire negli affari internazionali della regione, lasciando però ad essa la possibilità di godere di una sovranità sulle questioni interne. La Cina, però, non è mai stata in grado di concepire la situazione in questi termini al punto che decise di non firmare il documento redatto a fine conferenza. Il problema era legato al fatto che Inghilterra e Tibet si accordarono per definire la linea McMahon che segna il confine di divisione tra India e Cina partendo dal Buthan fino al Brahmaputra ad Est attraversando le cime dell’Himalaya.

Siccome il Tibet era visto dalla Cina come uno stato non indipendente, e quindi non in grado di prendere decisioni autonomamente, questa linea non venne mai considerata e l’unica divisione accettata è, ancora adesso, la Linea attuale di controllo che divide l’area di Aksai Chin (amministrata dalla Cina) e l’area di Arunachal Pradesh (amministrata dall’India). Ma qual è il collegamento tra la definizione dei confini ed il conflitto attuale? Per capire è necessario guardare al 1962.

Quell’anno ha inizio la Guerra Sino-Indiana con in palio il controllo della regione di Arunachal Pradesh. La Cina rivendicava il suo possesso per una serie di ragioni. Per prima cosa quest’area è vista come una parte del sud del Tibet e quindi necessariamente sottoposta al controllo della Cina. Per questa ragione, il fatto che appartenga all’India comporta un’invasione dei territori cinesi. Il peggio è stato raggiunto soprattutto quando la regione si è estesa arrivando a comprendere la città di Tawang, meta di fondamentale importanza per il suo monastero buddhista e posta a pochi chilometri di distanza dal Tibet.

Nel 1950 l’esercito cinese aveva invaso il Tibet violando la convenzione di Simla e l’India, piuttosto che mettersi contro la Cina, aveva preferito stipulare con essa un trattato commerciale. Nonostante la soddisfazione di entrambe le parti, però, dopo la fuga in India del quattordicesimo Dalai Lama nel 1959, ritorna il problema mai risolto del confine tra i due Paesi. Scoppia la guerra che sembra volgersi per il meglio per la Cina ma in realtà terminerà solo per dare il via a degli estenuanti negoziati. Il conflitto è breve ma fa guadagnare alla Cina l’area dell’Aksai Chin e lascia il Tibet nello status quo successivo alla conferenza di Simla.

Qualche tempo dopo, nel 1981, i ministri degli esteri di India e Cina si incontrano per contrattare e presentare le proprie visioni sulla situazione geopolitica. La Cina proponeva un “pacchetto”, cioè il riconoscimento della Linea McMahon sul versante est del Tibet e in cambio l’India le avrebbe concesso la sovranità sull’Aksai Chin, solo amministrato (quindi non completamente assoggettato) ad essa nel settore occidentale. Questo avrebbe poi permesso all’India di guadagnare la città di Ladakh e scambiare Tawang.

L’India invece aveva intenzione di agire in maniera molto più cauta, concentrandosi su un’approfondita indagine in riferimento alle basi legali della Linea McMahon. Per questa ragione la posizione indiana rimaneva legata alle decisioni del 1914 e non avrebbe mai rinnegato la legittimità di quei confini. Non è mai stata trovata una vera soluzione e dal 1989 continuano a protrarsi discussioni che hanno al massimo portato alla definizione di compromessi per il mantenimento della pace e della sicurezza sulla Linea attuale di controllo.

A CHE PUNTO E’ LA SITUAZIONE

Dopo il 1962, i rapporti tra Cina e India sembravano essersi stabilizzati sulla base di numerosi accordi bilaterali basati sia sulla gestione dell’area geografica che sul rispetto per le richieste della popolazione. Tuttavia a partire dal 2006, la Cina ha mostrato sempre maggiore avversità nei confronti di questo modo di fare ed i toni sono diventati più aspri. Infatti, proprio in quell’anno, l’ambasciatore cinese in India lasciò una dichiarazione abbastanza ambigua riferendosi alla regione dell’Arunachal Pradesh come territorio cinese. In seguito si verificarono altre dimostrazioni delle pretese di sovranità su questa regione da parte della Cina e soprattutto non si sono mai fermate delle inspiegabili irruzioni oltre il confine.

Tutto ciò si potrebbe spiegare come correlato ad un interesse da parte del governo cinese verso l’espansione di una sua influenza nei territori circostanti, soprattutto vista la tensione ancora irrisolta nella regione del Tibet. Si è anche pensato al fatto che l’India si sta a poco a poco avvicinando sempre di più agli Stati Uniti e la sua crescita economica fa paura sia per la possibilità di un possibile forte avversario nella concorrenza che a livello di ingerenza sulla definizione dei confini.

Negli anni 90, il governo cinese aveva persino iniziato a potenziare le forze militari nella base di Chengdu ed a stanziare alcune truppe nel sud del Tibet, in previsione di un possibile attacco indiano. Infatti l’India, a sua volta, dopo aver stabilito l’esercito nella regione del Sikkim, compresa tra Nepal e Buthan, ha inviato dei rinforzi per sostenere la Polizia Indo-Tibetana a difesa della Linea attuale di controllo. Non è presa in considerazione l’idea di iniziare un nuovo conflitto ma chiaramente la percezione delle tensioni è ben chiara tra coloro che si trovano sul campo e questo ha portato alla drammatica escalation di violenze che hanno raggiunto il culmine il 15 giugno scorso.

Le guerriglie degli ultimi tempi venivano viste come semplici “incomprensioni” e non destavano preoccupazione in quanto non hanno mai incluso l’utilizzo di armi da fuoco o esplosivi. Almeno fino ad oggi, momento in cui la morte di venti soldati ed un numero indefinito di feriti sta riportando a galla una ferita che non si è mai chiusa. Per anni i vari incontri tra gli ambasciatori non hanno mai incluso questo problema nell’agenda. Ad ottobre Xi Jinping ha incontrato il primo ministro Narendra Modi ma ancora una volta il confine è rimasto una questione secondaria lasciando spazio ad economia e commercio, unica via possibile, a loro detta, per un’Asia unita e capace di collaborare.

NESSUNA SOLUZIONE?

Xi JinPing e Modi sostengono che non ci sarà mai una risposta al quesito sui confini tra i due Paesi ma entrambi ben sanno che la principale causa di tutta questa instabilità risiede nel Tibet. La regione che da sempre rivendica la sua autonomia come Stato, si trova esattamente al confine con l’India, proprio il Paese in cui il Dalai Lama ha ricostituito il governo tibetano in esilio che è esattamente l’aspetto che più terrorizza la Cina.

Infatti nonostante all’esterno le relazioni appaiano quasi normali, da un altro punto di vista non si sono mai spenti i sospetti secondo cui l’India avrebbe collaborato con gli Stati Uniti in varie occasioni. Una di queste è stata, per esempio, il boicottaggio del passaggio attraverso il Tibet della torcia olimpica durante i giochi di Pechino nel 2008. Le proteste che si sono scatenate in seguito hanno poi portato alla promozione di un incontro nel 2009 ad Arunachal Pradesh in cui il Dalai Lama tenne un discorso nel monastero di Tawang.

La scelta non è casuale: Tawang è considerato come il centro di riferimento per i fedeli del buddhismo e soprattutto è l’immagine dell’unità del Tibet per i rifugiati. Questa città è anche la porta verso l’India, il passaggio che ha permesso al leader tibetano di iniziare l’esilio dopo la violenta invasione del 1950 da parte dell’esercito cinese. Per questo, come detto in precedenza, Tawang è un obiettivo a cui la Cina non può rinunciare durante le sue negoziazioni in quanto le permetterebbe di rafforzare la sua presunta sovranità legittima sulla regione liberandosi dell’influenza statunitense. Un’altra prospettiva meno complicata è rivolta unicamente al diverso modo di considerare la Linea attuale di controllo: la Cina ha una visione di essa molto astratta in quanto è come se un confine non esistesse e questa divisione fosse una semplice consuetudine; l’India, invece, percepisce l’esistenza concreta della linea e continua a chiedere spiegazioni alla Cina.

Un metodo non troppo intrusivo utilizzato da Modi per far pressione sui vicini cinesi è stato quello di promuovere ed iniziare la costruzione di nuove infrastrutture senza dimenticare la continua protezione che lo stato indiano offre al governo tibetano in esilio dal 1959.

Con lo scoppio della pandemia sembrava che la situazione avesse raggiunto uno stallo, ma i recenti scontri a Ladakh stanno facendo riaprire gli occhi ai leader dei Paesi coinvolti. E non si tratta delle sole India e Cina, ma deve essere inclusa l’intera comunità internazionale, gli Stati Uniti in primis, essendo intervenuti più volte nella questione. Subito dopo dovrebbero impegnarsi tutti quei Paesi che ancora sostengono l’importanza dei diritti umani e della validità del diritto internazionale. Infatti, ancor prima delle negoziazioni diplomatiche è necessario assicurare la sicurezza e la libertà per i popoli coinvolti, coloro che per primi vivono le sofferenze di situazioni talmente instabili.

Non è necessaria un’altra guerra sino-indiana. Il cambiamento potrebbe arrivare se si rinunciasse al nazionalismo che accomuna India e Cina e se soprattutto si smettesse di dare per scontata una realtà che sembra così lontana e complessa ma la cui soluzione potrebbe ridare credibilità ad un sistema internazionale che ha dimenticato i valori sui quali è stato fondato a vantaggio di particolari interessi economici.

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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