Chi ha visto, al cinema oppure in televisione o su Netflix, Midnight in Paris in molti casi non può che parlarne come un prodotto cinematografico di qualità. Il lavoro di Allen eccelle infatti sotto diversi punti di vista, primi fra tutti l’impianto registico e fotografico capaci di proiettare nella rive gauche parigina anche chi non è mai stato nella capitale francese. 

Ciò che però forse non tutti colgono parlando del film è il ragionamento introspettivo che si nasconde sotto lo strato della trama principale. Un ragionamento raffinato che apre le porte ad una grande discussione sull’interiorizzazione che l’uomo contemporaneo fa del proprio passato. 

Come vive una persona del 2022 la propria relazione con il passato storico, quello vecchio di decenni o addirittura secoli? 

Una risposta intrigante la dà proprio il film di Woody Allen. 

Il successo di Midnight in Paris e la fatalità dell’animo umano

In molti casi sarebbe bastato il solo nome di Woody Allen per far salire Midnight in Paris nell’olimpo della filmografia contemporanea. E per certi versi è possibile dire sia stato così. Ma affermare che il film ha avuto il successo che ha avuto solo per la fama del suo regista o di qualche attore nel cast, sarebbe poco rispettoso. 

Ciò che più ha colto l’interesse del grande pubblico, anche se sopitamente e senza che se ne accorgesse, è lo stretto legame prodotto dal film con l’animo umano dei suoi spettatori. Si tratta dello svilupparsi mano a mano di quella sindrome dell’epoca d’oro, qualcosa presente in tutti noi e che la trama del film segue dall’inizio alla fine. 
Una caratteristica in tutto e per tutto umana, sviluppata nel corso del film non solo dalla figura sognatrice di Gil Pender (Owen Wilson), modello dell’uomo contemporaneo, ma anche da quella di Adriana (Marillon Cotillard), icona di un tempo ormai passato.

Chi, oggi, può dirsi incolpevole dall’aver pensato anche solo una volta di voler essere nato in tempo per il ’68, all’alba della Belle Époque oppure a ridosso dei Roaring ’20? 
La sindrome dell’epoca d’oro è quanto di più umano esista al mondo: un genuino sentimento di nostalgia misto alla sensazione di sentirsi costantemente fuori luogo nell’epoca in cui si vive. 

La sindrome dell’epoca d’oro come la più dolce delle “malattie”

“Quelli che vivono nel passato, che credono che sarebbero piu’ felici se vivessero in un’epoca lontana”

E’ così che in Midnight in Paris è, sinteticamente, descritto l’identikit dell’affetto da sindrome dell’epoca d’oro.  Si può tranquillamente affermare di essere di fronte ad una malattia a tutti gli effetti. Una sindrome in tutto e per tutto che soprattutto nel terzo millennio ha visto un dilagare senza freni dovuto all’incertezza ed alla disgregazione delle precedenti fondamenta della società umana. 

Si potrebbe chiedere ad un gruppo di sconosciuti per strada: “In quale epoca ti piacerebbe vivere, inclusa quella di oggi?”. Con grande probabilità quelli a rispondere con epoche diverse dalla nostra sarebbero molti di più di quanti sarebbe lecito aspettarsi. 

Sarebbe tuttavia sbagliato parlare di “malattia” nel senso clinicamente negativo del termine. Allo stesso tempo si tratta senza ombra di dubbio di un fenomeno che è sia malattia sia antidoto e cura. 
Discosta, allontana, illude dall’epoca di appartenenza ma si tratta ancora dell’antidoto più dolce a disposizione dell’essere umano quando si tratta di alleviare e calmare i dolori e la frustrazione della contemporaneità. 

Occorre chiaramente realizzare il fatto che tornare indietro ad un’epoca precedente è attualmente impossibile e, salvo mirabolanti macchine del tempo, lo sarà in eterno. Addormentarsi cullati dal ricordo dei tempi passati è controproducente: allontana non solo dall’effettiva realtà dei fatti, ma finisce per allontanare anche le stesse persone che nella vita di tutti i giorni ci sono vicine. 

Saper distinguere: il rapporto umano fra presente e passato dentro la pellicola di Allen

Perdersi nell’illusione del passato, viaggiando fra ieri ed oggi dalla Parigi degli anni 2000 a quella degli ’20, è il grande cruccio di Gil Pender in Midnight in Paris. Lo scrittore statunitense interpretato da Owen Wilson si trova fin dalle prime battute ad essere catapultato all’interno della sua, personalissima, fantasia. Il rapporto con il personaggio di Inez (Rachel McAdams) appare immediatamente come quello fra due estremi: da un lato la figura del nostalgico, del “malato” d’epoca d’oro, dell’eterno romantico; dall’altro un personaggio più contemporaneo, cinico, materialista, legato all’essenza del presente e dell’oggi. 

In un certo senso entrambi i personaggi figurano le caricature dei grandi poli dell’animo umano quando si tratta di rapporto con la temporalità. Ogni essere umano che viva le proprie esperienze sul piano del reale si pone in un determinato punto sulla scala di grigi posta da questi due estremi. La sensibilità personale ed il grado di interiorizzazione del proprio rapporto con l’idea di un “passato ideale” cambiano da individuo ad individuo, così come anche i metodi e la difficoltà sentite nel distacco dal presente-reale. 

La lungimiranza e la profondità dell’opera di Woody Allen si trova anche in questo ragionamento specifico. È il caso del diverso modo di percepire il proprio desiderio di un’epoca diversa vissuto nel film da Gil Pender e da Adriana: il primo finisce inizialmente per smarrirsi nella sua stessa illusione, trascinato dal desiderio di una Parigi degli anni ’20 sotto la pioggia, ma riesce a ritrovare la via grazie ai preziosi suggerimenti degli amici-mentori incontrati nel passato come l’Hemingway interpretato da Corey Stroll o il Francis Scott Fitzgerald di Tom Hiddleston, riuscendo in ultima analisi a ritrovare il contatto con la propria realtà; al capo opposto la figura di Adriana decide di perdersi nella sua epoca d’oro, la Belle Époque, e di restarvi praticamente imprigionata soccombendone al fascino illusorio di un passato migliore.  

Abbandonarsi al passato non è la Panacea

La storia narrata tramite il personaggio di Gil Pender rende bene l’idea di come ancorarsi al passato come cozze su uno scoglio non sia, nemmeno lontanamente, la soluzione ai problemi del presente. Anzi, per certi versi questa dolce medicina che è il sognare di un’altra epoca può rivelarsi estremamente controproducente. 

Così come alla fine del film la maschera di Owen Wilson riesce a capire come il passato non sia semplicemente un quadro da ammirare, riconoscendo nella stessa Parigi degli anni ’20 lo stesso sentimento di “smarrimento contemporaneo” che lui avvertiva nella sua epoca, occorre comprendere come il passato sia (forse troppo tautologicamente) solo questo: il passato. 

Sia pur luogo di fantasie ed illusioni è necessario che non si intersechi con la realtà presente ma resti al ruolo, fondamentale per quanto non di palcoscenico, di “modello” da cui apprendere, ridisegnare, definire e migliorare per arricchire l’oggi. 

Abbandonarsi alle fantasie su periodi storici diversi può aiutare, ma occhio a non perdere la distanza dalla realtà. È questa la nostra vera dimensione, ci piaccia o meno, e dobbiamo rispettarla in quanto tale; fosse anche solo per rispetto delle generazioni future che guardando al 2022 avranno la loro, personale, Sindrome dell’Epoca d’Oro. 

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