Ho sempre pensato che essere uno studente universitario pendolare significhi avere una sorta di doppia vita: una che si svolge nella città in cui frequenti l’università, un’altra che ti aspetta al tuo ritorno.
È tutto molto bello. Se non fosse per il fatto che le ore di sonno sono sensibilmente ridotte e durante l’arco della giornata non puoi fermarti neanche un secondo. Devi adattarti ad un’infinità di cose, anche sconvenienti, che non dipendono da te: ritardi dei mezzi, pranzi improvvisati, pioggia e tanto altro. Il tutto va fatto possibilmente col sorriso: hai 20 anni e, si sa, “questi anni non tornano più”.
Io l’ho fatto, per un anno intero, prima di decidermi ad affittare una stanza. E, a dire la verità, l’ho fatto con grande curiosità e felicità, nonostante mi mettessi a letto distrutto, con la consapevolezza che 5 o 6 ore dopo mi aspettava una giornata intensa almeno – se non di più – quanto quella appena trascorsa.
La mia sveglia era alle 5:40. Impostarla alle 5:30 mi metteva troppa ansia, perché troppo presto, ancora “troppo notte”; alle 6 mi metteva sempre ansia, ma per un motivo diverso: non ce l’avrei mai fatta ad arrivare alla stazione in tempo.
Svegliarsi, fare colazione, prepararsi alle 6 di mattina
Ogni mattina era sempre la stessa storia. Nel mezzo del silenzio assordante, suonava la mia sveglia. A me, puntualmente, sembrava di essermi addormentato due minuti prima! E invece no, era il momento di alzarsi. Così mi tiravo giù dal letto e andavo in cucina per la colazione. Poco dopo si svegliava mia madre, che mi preparava il caffè. Era sempre tutto chiuso, la luce accesa. Fuori era spesso buio.
Io avevo letteralmente i minuti contati: 20 per fare colazione, 40 per vestirmi. Il resto era dedicato a quelli che definivo “ritardi accumulati” ed al tragitto verso la stazione, dove c’era il treno delle 06:59 ad aspettarmi. O meglio, non è che proprio mi aspettasse. Diciamo che partiva anche senza di me. E’ successo varie volte.
Devo dire di essere stato anche fortunato: ho la stazione a 3 minuti da casa. Era proprio su questo punto che mi rimproveravano i miei genitori ogni volta in cui perdevo il treno, mentre io cercavo insolite spiegazioni per giustificarmi.
Il viaggio verso l’università
In stazione, ogni mattina, eravamo più o meno sempre gli stessi. Alcuni si dirigevano al binario 1, altri al binario 2: da questi due binari, infatti, passano tutt’oggi i treni per Bari e per Lecce, le due città universitarie più vicine ad Ostuni.
Io mi fermavo al binario 1, aspettando il treno per Bari. Ormai conoscevo tutte le fermate e le persone che scendevano dal treno nelle varie città di mezzo. Io però, per impegnare il tempo, mi divertivo ad immaginare le loro vite: ipotizzavo il loro lavoro, il loro umore.
Poi, ovviamente, sul treno si vedeva arrivare il giorno e si cercava di prevedere il meteo che ci sarebbe stato nell’arco della giornata: cielo coperto? Pioverà sicuramente. Non il massimo per un meteoropatico come me. Tante volte, però, è successo di vedere panorami straordinari, cieli bellissimi, albe mozzafiato. E allora, in quel caso, mi fermavo ad ammirare, a godermi il momento, a darmi coraggio per affrontare la giornata.
Un aspetto negativo del viaggio in treno era rappresentato dai posti a sedere: era ogni volta una sorta di gara per riuscirsi ad assicurarsi un posto su quelle poltrone, peraltro scomode! Chi non ci riusciva, se ne stava fermo, in piedi, aspettando che qualche posto si liberasse. Questo non succedeva praticamente mai: il numero delle persone che salivano era sempre – e di molto – maggiore rispetto a quelle che lasciavano il treno.
Una giornata intera in università
Il viaggio in treno aveva una durata che oscillava tra i 50 ed i 70 minuti, quando non c’erano ritardi. Una volta arrivato, mi dirigevo verso l’università. Anche qui, devo dire di essere stato fortunato: la mia università distava circa 200 metri dalla stazione centrale.
Alcuni miei amici, ad esempio, dovevano affrontare altri tre quarti d’ora di pullman per arrivare alla propria sede universitaria.
Una volta arrivato a Bari, giungevo in università e vedevo le facce di buona parte dei miei colleghi così felici e fresche. Per me non era proprio lo stesso: ero sveglio già da 3 ore!
Avevo 10 minuti per salutare i miei amici e per prendere posto (anche qui: quando c’era!). Arrivava il docente e le lezioni iniziavano, susseguendosi l’una all’altra, fino alla pausa pranzo. In realtà, non sempre le lezioni si interrompevano ad ora di pranzo. Ricordo di un giorno alla settimana in cui avevamo una pausa di un’ora dalle 15 alle 16.
E così, in quell’ora a disposizione, dovevi andare a procurarti qualcosa da mangiare, trovare un posto in cui consumare il pranzo, prendere un caffè e tornare in università. Certo, i più diligenti portavano con sé del cibo da casa. Io però non ero tra quelli. Tutte le focaccerie ed i bar dei dintorni ormai mi conoscevano. Mi vedevano arrivare, di corsa, a prendere i due soliti pezzi di focaccia o i miei soliti rustici. Poi raggiungevo i miei amici e pranzavamo insieme, spesso su sedie e tavoli in atri e corridoi dell’università.
Ad essere sincero, nei primi mesi, in cui non conoscevo nessuno, pranzavo da solo. Cercavo una panchina nella villetta vicino all’università, mi sedevo e, fissando il vuoto, mangiavo il mio pezzo di focaccia, o quello che era.
Finita la pausa pranzo, tornavo in aula, pronto – o quasi – per altre ore di lezione. Nonostante una buona dose di caffè, era un pò difficile recuperare il livello di attenzione della mattina. Però, insomma, mi toccava stare lì ed ascoltare, nonostante le ore di sonno perse iniziassero a farsi sentire. Così, tra una lezione e l’altra, trascorreva il pomeriggio. Due giorni a settimana le mie lezioni terminavano alle 19. Già dalle 18:30/18:40, però, molti dei miei colleghi andavano via. Molti avevano il treno alle 19 in punto, quindi non riuscivano ad assistere fino alla fine della lezione.
Io avevo il treno alle 19:30. Per me c’era abbastanza tempo per non correre verso la stazione e anche per comprare qualcosa da mangiare durante il tragitto di ritorno. La fame iniziava a farsi sentire. E anche il Mc Donald’s che si trova ancora oggi tra l’università e la stazione richiamava la mia attenzione.
Così arrivavo in stazione, sognando di arrivare a casa quanto prima possibile. Il mio desiderio, però, spesso veniva sfidato dagli annunci dei treni: 5, 10, 15, 20 minuti di ritardo. Ed era sempre un’ansia, perché succedeva che venisse annunciato un ritardo del treno di 5 minuti, che passati gli stessi, diventava di 10, poi di 15 e così a seguire. E il mio letto sembrava essere sempre così distante da me… Soprattutto perché, a proposito della doppia vita di cui dicevo prima, 3 giorni a settimana avevo gli allenamenti di karate. Uno di questi tre giorni coincideva con uno dei due giorni in cui finivo le lezioni alle 19 ed arrivavo nella mia città alle 20:30. Era il lunedì. Ed io tanti lunedì nel periodo tra ottobre 2017 e maggio 2018 in palestra non ci sono andato.
La verità è che essere pendolare ti porta via tanto tempo e tante energie. Buona parte della giornata la passi fuori, adeguandoti al contesto ed a varie ed eventuali situazioni. Alle 5:40 di mattina desidereresti, più di qualsiasi cosa, stare ancora un pò sotto le coperte.
Poi però, col tempo, la città in cui frequenti l’università diventa la tua seconda casa. Impari a conoscerla, a scoprirla, ad amarla. Ti ambienti, crei le tue abitudini. Succede addirittura che alcune persone ti chiedano indicazioni per raggiungere un luogo, come se tu fossi del posto, e sei in grado di dargliele! E poi, accade che quella città ti manca se per qualche giorno non la vedi.
Tra me e Bari è stato amore a prima vista. Ricordo quell’anno col sorriso: non mi fermavo mai e questo mi dava energia, ovviamente fino ad un certo punto. Ed infatti l’anno successivo ho deciso di affittare una stanza in una casa vicino all’università.
Insomma, sono stato pendolare per un intero anno accademico. E’ stato bello, però… mi è bastato!