Sembra che l’intento della serie sudcoreana sia stato quello di mettere in evidenza l’ambivalenza della vita dell’uomo, in costante tensione tra il suo bisogno di protezione e il desiderio di libertà. Il protagonista Seong Gi-hun oppresso dai molti debiti accumulati sceglie di accettare il crudele gioco in cui per la prima volta nella sua vita si ritrova in condizioni di parità con gli altri.

Tuttavia ben presto si rende conto che i giocatori sono sottoposti ad un controllo rigido, ridotti a dei numeri in serie e in una condizione di forzata omologazione con gli altri. Per di più l’uguaglianza forzata li porterà ad una libertà solo apparente che piuttosto catapulterà i concorrenti in una condizione di insicurezza e violenza in cui prevale la legge del più forte. Il regista sembra denunciare i soprusi silenziosi del capitalismo ma al contempo, sin dal primo episodio non vengono tralasciati quegli elementi di denuncia di una dittatura orwelliana che toglie ogni possibilità di privacy ai concorrenti. In questa nuova micro-realtà il protagonista può finalmente cercare di riscattarsi da un destino di povertà a cui la società libertaria coreana lo aveva sottoposto, privandogli le cure per la grave malattia della madre, a causa della mancata assicurazione sanitaria.

Questa tensione tra libertà e uguaglianza, è oggi al centro di un acceso dibattito internazionale a partire dal secondo dopoguerra, periodo in cui il tema dei diritti umani divenne più sentito e spinoso che mai. La stessa tensione in tema di diritti e soprattutto sulla loro concezione si riflette sulla profonda divisione coreana tra un Nord fondato sull’economia pianificata e sul sistema del collettivismo e un Sud ormai pienamente inserito nel libero mercato e nella globalizzazione, riflettendo ancora quei congelati rapporti della guerra fredda.

La Juche
In Corea una profonda divisione lungo il 38° parallelo Nord si ripropone anche in ambito ideologico-politico contrapponendo la Democrazia al Comunismo. La Corea del Nord vuole in realtà distaccarsi da quest’ultimo e affermare una nuova visione del mondo, del tutto unica sulla scena internazionale. Secondo molti osservatori politici tuttavia l’ideologia dominante nel paese si accosterebbe parecchio all’idea del “socialismo in un solo paese” descritta da Stalin in Unione Sovietica. Questa “via diversa al socialismo” si distingueva per il rifiuto della concezione liberale dei diritti umani.

Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il crollo dei regimi socialisti fu rimosso dalla costituzione nordcoreana ogni riferimento al marxismo-leninismo e si consolidò la così detta Juche, trattata come un’ideologia a sé. Anzi, con questa nuova ideologia i membri della società cominciarono a considerarsi come portatori di una nuova era nello sviluppo della storia umana. Anche lo storico Charles K. Armstrong

sostiene che la Corea del Nord può sembrare stalinista nella forma ma è nazionalista nel contenuto.

L’ideologia della Juche è dominante ancora oggi, il cui indottrinamento pervade ogni ambito della vita dei cittadini, al punto di modificarne la storia del paese che ormai coincide con la storia della dinastia kim. Il popolo è considerato artefice del proprio destino e al contempo responsabile dello sviluppo della nazione, sebbene non in grado di agire autonomamente ma pensando attraverso il grande leader. La venerazione del leader assume le sembianze di un vero e proprio culto e viene tramandata attraverso un indottrinamento sociale che inizia fin dalla più tenera età. Questa concezione di Kim II Sung (il primo vero leader) ha influenzato la cultura del paese dal 1948, mentre dopo la sua morte, avvenuta nel 1994, si è enfatizzata a tal punto da conferirgli il titolo di “leader eterno”, ancora oggi considerato come presidente del paese.

A livello internazionale le parole d’ordine della Juche sono autarchia e isolazionismo. La prima mira all’indipendenza dalle superpotenze, attraverso l’impiego prioritario delle risorse nazionali. L’intento è quello di realizzare le qualità di indipendenza, autosufficienza e autodifesa. Mentre il secondo mira al congelamento dei rapporti internazionali, al rifiuto di ogni forma di ingerenza e al castigo, interno alla società, di varie forme di apertura e curiosità dirette al di fuori dei confini.

Nel complesso questa filosofia che possiamo definire “uomocentrica”, unita alla presenza di una cultura del leader che il paese aveva conosciuto sotto l’influenza del comunismo negli anni ‘60, hanno permesso al regime di plasmare il popolo a propria immagine e somiglianza spianando la strada verso un assolutismo di stato e un pensiero unico che non tollera nessuna forma di divergenza.

Elementi totalitari in Nord Corea
Secondo i risultati del Democracy index del 2019 la Corea del Nord si posizionerebbe ultima su 167 paesi esaminati, con un punteggio di 1,08/10.

L’esercizio del diritto di voto è divenuto una mera formalità (è presente un solo candidato per ogni circoscrizione) e anche la presenza di un solo partito alla guida del Governo suggerisce la presenza di un pensiero unico in tutto il paese.
La Costituzione del Repubblica popolare si considera una Repubblica democratica ma de facto presenta molti elementi della dittatura totalitaria che la accostano più che altro alla Cina di cinquant’anni fa.

Un altro dato emblematico emerge dai rapporti di Amnesty International secondo cui essa sarebbe tra i paesi con la peggiore situazione in tema di diritti umani e libertà fondamentali.

Il dibattito sui diritti umani in Corea del Nord risale a prima della fondazione dello stato (1948) con un’ideologia che miscelava elementi innovativi a confucianesimo e stalinismo.
Il Partito del lavoro di Corea, che detiene il potere assoluto nello Stato, estremizza la concezione marxista accusando quei diritti borghesi-capitalisti che si ripropongono ciclicamente in ogni società. Emerge una visione dei diritti umani e della loro protezione come uno slogan anti-rivoluzionario e anti-socialista che protegge i privilegi imperialisti.

Il Governo coreano denuncia questa concezione dei diritti e teme il rovesciamento del regime consolidatosi che potrebbe essere provocato dall’infiltrazione del capitalismo nel paese. Esso ricerca dunque un isolazionismo nei confronti del mondo globalizzato che altrimenti porterebbe del marcio nella società. Questa è la visione che rende la Corea del Nord un paese chiuso, cupo, impenetrabile dietro la definizione di repubblica democratica.

Diplomazia sui diritti
Nella serie televisiva emergono degli elementi che fanno da specchio alle difficoltà contemporanee di costruzione di una cultura dei diritti umani adeguata alle sfide del mondo globalizzato. Il regista stesso ribadisce che il mondo in cui viviamo non è molto lontano da quello della serie. La società secondo Hwang Dong-hyuk, la mente dietro questo successo internazionale, mette molto spesso gli uni contro gli altri, in una feroce competizione per emergere e prevalere sugli altri. Questo rende le persone quotidianamente in lotta tra ciò che è giusto e sbagliato, tra il bene e il male. In questa intricata visione della vita umana, resta al centro il pensiero di cosa lo stato potrebbe e dovrebbe fare per garantire all’essere umano il più elevato standard di benessere condivisibile. Ciò che sembra fondamentale, in una ricerca di definizione del fenomeno è il possibile legame di questo valore ad una determinata civiltà ed epoca storica. Ciò appare in contraddizione con il requisito di universalità intrinseco al concetto stesso dei diritti umani.

La posizione del paese nordcoreano sul tema è che essi non possano divenire universali e non lo siano per definizione perché condizionati dal comportamento del cittadino, sostenendo che i diritti della collettività prevalgono su quelli del singolo e dando più peso al welfare e alla solidarietà che non alle libertà individuali e al diritto del singolo.
In particolare di fronte alle accuse provenienti da numerose commissioni che sorvegliano l’operato del paese e di fronte alle innumerevoli sanzioni internazionali, la Corea del Nord ha seccamente affermato che l’idea dei diritti umani è il prodotto di una loro politicizzazione da parte dell’Unione Europea e del Giappone, in aggiunta alla politica ostile condotta dagli Stati Uniti.

La Corea del Nord sembra così mettere avanti a tutto l’impossibilità di una universalità del concetto dei diritti umani piuttosto che l’importanza di una loro concreta applicazione e protezione che di fatto può essere resa universale. Ciò sarebbe possibile soltanto con l’arma della diplomazia, con il riconoscimento della presenza di valori differenti, spesso in contrasto. Ma comunque in una scelta a favore della tolleranza e del pluralismo da parte degli stati, creando un clima favorevole alla diffusione dei diritti in questione.

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