Il 13 aprile 1906 nasceva Samuel Beckett, Drammaturgo di grande fama, grazie soprattutto alla celeberrima opera Waiting for Godot. Qui, egli mette in scena in epoca post-bellica e post nucleare, il dramma dell’attesa in senso universale, all’interno di una narrazione in due atti ove l’incedere spietato del tempo si risolve in micronarrazioni interiori fini ogni volta a loro stesse: Godot non si palesa, resta protagonista assente, but they do not move.

L’unico che si muove è il tempo. Il che ci riporta all’oggi, un’epoca ove occorre chiederci se siamo sicuri di muoverci, ove la sensazione di essere in balia di un qualcosa di incombente ci perseguita quotidianamente. Prova lampante ne è la narrazione mediatica allo stesso tempo specchio e acceleratore di fenomeni isterici di massa risultanti dalla paura verso ora questo, ora quell’ipotetico pericolo. La sensazione è quella di non avere il controllo neppure di noi stessi, in attesa di una sempre più vicina, inesorabile (sebbene auto-inflitta) fine.

Non è un caso che da anni oramai la filmografia si sia sbizzarrita nello sviluppare tale tematica alla ricerca di una qualche esorcizzazione del problema, o di una semplice missione di sensibilizzazione dei più verso i reali rischi incombenti. Torniamo sempre all’estrema capacità da parte di tali registi di fiutare un vuoto esistenzialistico – sulle orme di Beckett – nel sentire comune, e di insinuarsi all’interno di esso cavalcando il dramma al nocciolo: il problema dell’attesa, dell’angoscia collettiva, nella speranza magari che l’opzione di una catastrofe comune potesse, infine, unirci tutti e riscoprire nel valore della comunità sociale quella svolta tanto agognata.

Questo nel migliore dei casi (film come 2012 – Roland Emmerich, o Segnali Dal FuturoAlex Proyas, o anche Arrival – Denis Villeneuve) nel peggiore dei casi – andando sempre più verso opere recenti –  la catastrofe non porta ad un ribaltamento valoriale ed ognuno è portato sempre più ad affrontare il dramma da solo, chiudendosi nel proprio più narcisista e confortevole individualismo (pensiamo a SiccitàPaolo Virzì oppure Don’t Look UpAdam McKay) restituendo un immagine di un umanità oramai talmente disgregata da essere spacciata (ciò che in un certo senso si vagheggia come possibile finale anche all’interno delle opere surrealiste di Saramago da Cecità alla Zattera Di Pietra, sebbene egli alla fine opti sempre per un finale più conciliante, ma pur sempre ambiguo).

Tornando all’opera di Beckett, parliamo anzitutto del suo autore, mettendo in risalto l’innovazione viscerale che egli apportò al nostro tempo.

  • Samuel Beckett, bibiografia e opere

Per presentare brevemente l’autore, estrapoliamo qualcosa da Wikipedia: Samuel Barclay Beckett (Dublino13 aprile 1906 – Parigi22 dicembre 1989) è stato un drammaturgoscrittorepoetatraduttore e sceneggiatore irlandese.

Considerato uno degli scrittori più influenti del XX secolo, Beckett, il cui capolavoro è Aspettando Godot, è la più significativa personalità di quel genere teatrale e filosofico venne anche definito Teatro dell’assurdo. Ma la sua produzione artistica va intesa in senso più ampio, in quanto fu autore complesso anche nel campo radiofonico, televisivo e cinematografico. Nel 1969 Beckett venne insignito del Premio Nobel per la letteratura «per la sua scrittura, che – nelle nuove forme per il romanzo ed il dramma – nell’abbandono dell’uomo moderno acquista la sua altezza».

Samuel Beckett nasce probabilmente il 13 aprile 1906, un Venerdì Santo, nonostante i registri anagrafici riportino come data il 14 giugno, mentre un altro certificato di nascita indichi il 13 maggio. All’età di cinque anni, Beckett inizia a frequentare la scuola materna locale, dove comincia a studiare musica.

Nel 1919, Beckett frequenta la Portora Royal School a Enniskillen, dove fu studente anche Oscar Wilde. Ottiene ottimi risultati nello studio del francese, lingua che padroneggerà in modo perfetto in età adulta. Beckett studia francese, italiano e inglese al Trinity College di Dublino tra il 1923 e il 1927. Nel 1926 viaggia lungamente in Francia, nel 1927 in Italia. Si laurea con un Bachelor of Art e riceve la medaglia d’oro per l’eccellenza dei suoi risultati. Dopo aver insegnato per un breve periodo al Campbell College a Belfast, assume la carica di lecteur d’anglais alla École normale supérieure di Parigi. Qui ha la possibilità di conoscere James Joyce, incontro che avrà una profonda influenza sul giovane Beckett. Egli assiste Joyce in vari modi, in particolare aiutandolo con altri amici nella traduzione in francese di alcune pagine di quello che sarebbe diventato Finnegans Wake.

Nel 1930 Beckett torna al Trinity College come docente universitario, ma presto rimane deluso da questa scelta. Esprime la sua avversione facendo uno scherzo alla Modern Language Society of Dublin, leggendo un testo in francese di un autore di Tolosa chiamato Jean du Chas, fondatore di un movimento detto Concentrismo; Chas e il Concentrismo, comunque, erano pura finzione, essendo stati inventati da Beckett per beffarsi dell’eccessiva pedanteria dell’ambiente accademico.

Nel 1945 Beckett torna a Dublino per una breve visita. Durante questo soggiorno, ha una rivelazione nella stanza di sua madre, nella quale gli appare tutto il suo futuro percorso letterario. Questa esperienza verrà romanzata nella rappresentazione L’ultimo nastro di Krapp. Nell’opera, la rivelazione di Krapp, avviene durante una notte tempestosa. Alcuni critici hanno identificato Beckett con Krapp, al punto di presumere che la sua Epifania artistica fosse accaduta nella stessa posizione e nelle stesse condizioni temporali.

Comunque, molti critici letterari hanno osteggiato la comparazione delle esperienze dei personaggi con quelle dei propri autori. Per tutta la rappresentazione, Krapp ascolta una registrazione fatta precedentemente nella sua vita; in un certo momento sente il giovane sé stesso dire “…clear to me at last that the dark I have always struggled to keep under is in reality my most…” (“…mi è chiaro infine che la tenebra che ho sempre cercato di soffocare è in realtà il mio più…”). Krapp manda avanti velocemente il nastro prima che il pubblico possa ascoltare la rivelazione completa. Più tardi Beckett rivelerà a James Knowlson (che lo riporterà nella biografia Damned to fame) che le parole mancanti del nastro erano “prezioso alleato“.

Veniamo a noi:

  • Waiting For Godot

Beckett è famoso principalmente per l’opera teatrale Aspettando Godot. In un articolo, il critico Vivian Mercier scrisse che Beckett “ha realizzato il teoricamente impossibile, un’opera in cui non succede nulla, ma che tiene incollati gli spettatori ai loro posti. In più, considerando che il secondo atto è una ripresa leggermente differente del primo, ha scritto un’opera in cui non succede nulla, due volte”.

Come molte delle sue opere a partire dal 1947, la rappresentazione è stata scritta inizialmente in francese col titolo En attendant Godot. Beckett la scrive fra l’ottobre 1948 e il gennaio 1949. Viene pubblicata nel 1952 e la sua prima rappresentazione avviene nel 1953 al “Theatre de Babylone” a Parigi, dove ha un discusso e controverso esito.

  • Trama

Vladimiro (chiamato anche Didi) ed Estragone (chiamato anche Gogo) stanno aspettando su una desolata strada di campagna un certo “Signor Godot”. Non vi è nulla sulla scena, solo un albero dietro ai due personaggi che regola la concezione temporale attraverso la caduta delle foglie che indica il passare dei giorni. Ma Godot non appare mai sulla scena, e nulla si sa sul suo conto. Egli si limita a mandare un ragazzo dai due vagabondi, il quale dirà ai due protagonisti che Godot “oggi non verrà, ma verrà domani”.

I due uomini, vestiti come barboni, si lamentano continuamente del freddo, della fame e del loro stato esistenziale; litigano, pensano di separarsi (anche di suicidarsi) ma alla fine restano l’uno dipendente dall’altro. Ed è proprio attraverso i loro discorsi sconnessi e superficiali, inerenti ad argomenti futili e banali, che emerge il nonsenso della vita umana. A un certo punto del dramma, arrivano altri due personaggi: Pozzo e Lucky. Pozzo, che si definisce il proprietario della terra sulla quale Vladimiro ed Estragone stanno, è un uomo crudele e al tempo stesso “pietoso”, tratta il suo servo Lucky come una bestia, tenendolo al guinzaglio con una lunga corda. Pozzo è il padrone, Lucky il servo, ma al tempo stesso Pozzo è vittima di Lucky e la corda che li unisce indica un legame reciproco apparentemente inscindibile. I due nuovi personaggi successivamente escono di scena.

Didi e Gogo, dopo aver avuto l’incontro con il ragazzo “messaggero di Godot”, rimangono fermi mentre si dicono “Well? Shall we go?” (E ora? Possiamo andare?) – “Yes, let’s go” (Sì, andiamo), e l’indicazione scenica dice ironicamente “They do not move” (Non si muovono). Il linguaggio non riproduce più la realizzazione della volontà individuale. Non esiste più legame fra parola e azione, fra il linguaggio e la storia che dovrebbe esprimere, comunicare e attivare.

  • Waiting For…What?

Nel bel mezzo di una crisi climatica globale, guerre, pandemie, disastri ambientali, rivalutiamo l’opera Waiting For Godot e il lavoro di Beckett concernente il teatro dell’assurdo come di fondamentale importanza per comprendere il nostro presente.

Non a caso egli lo scrisse in un contesto post-bellico ove la percezione di incombenza di una catastrofe nucleare è solo uno dei molteplici sostrati di significanti che l’opera può assumere: il più realista, più evidente, il più banale. Eppure, eccoci qua, 70 anni dopo, e sembra che poco sia cambiato. Tuttalpiù nel nuovo contesto bellico internazionale odierno, ove la prospettiva di una guerra fredda tra super potenze oramai sembra chiaro come non sia mai finita nel dimenticatoio, anzi, sia sempre rimasta attiva, all’oscuro della maggior parte dell’opinione pubblica a minacciare la sicurezza di ognuno, dietro un argomento di carattere più imminente ed un altro.

Ad oggi vi sono opere che sembrano riprendere tale tematica: la stessa opera di Beckett a breve subirà un riadattamento cinematografico volto a fondere la settima arte ed il teatro; come anche il già menzionato Don’t Look Up che sembra concretizzare esattamente tale fatalismo in azione nella sua prospettiva più macabra e nei suoi risvolti più infausti. In questo caso, tuttavia, Godot non si concretizzerebbe nella cometa in rotta di collisione con il pianeta terra (quella ad un certo punto arriva) ma nella possibilità di riconciliare una comunicazione collettiva. Nella possibilità di comprendersi. In senso Gadameriano del termine. Ed ecco che in quest’ottica, Godot non arriva mai.

Ma anche dell’attesa che un diritto internazionale finalmente superi la prospettiva delle super potenze statali, per compiersi finalmente nelle sue ambizioni di super-tutela dei diritti umani, di un mondo ove il progresso tecnologico lasci finalmente spazio ad un progresso umano, ove l’obiettivo sia potenziare la nostra empatia piuttosto che delle pompose AI che risolvano ogni nostro vezzo. Dell’avvento, dall’atro lato, di un leader carismatico che ci salvi, un nuovo messia, un’unica e potente, sensibile figura in cui riporre (God-dot) la nostra flebile speranza. O che il mondo si disintegri, che le catastrofi ci annientino, che gli imperi crollino, che qualche potenza ci sgozzi tutti.

Insomma, attendiamo, in attesa di attori esterni. Poiché noi restiamo incapaci di muoverci, di intenderci come attori, impassibili ai cambiamenti stagionali, in un tempo eternamente circolare ma anche in un drastico, inesorabile movimento. Arriverà mai Godot? O siamo destinati ad un ripetersi stremato del dramma iniziato in epoca contemporanea? Ci sarà mai davvero un post-contemporaneo? O siamo tutt’oggi immersi in un immenso teatro globale dell’assurdo che si palesa giorno per giorno “mentre cresce un’intensa disperazione”? Una tensione continua, elettro-statica. Siamo in un’era di passaggio, o il passaggio è il nostro limbo eterno a causa della continua evoluzione tecnologica, transizione generazionale, da un’innovazione all’altra, dal vecchio – Inteso sempre come antiquato, da buttare, guasto – al nuovo -luccicante, appariscente e così tremendamente fine a sé stesso poiché temporaneo -?

O forse è davvero un’epoca di passaggio – intesa non come limbo – e Godot arriverà nelle nuove generazioni, pronte a costruire un nuovo orizzonte, più equo, più onesto, più politically correct, più invidiabile, più sensibile – un futuro più democratico nella sua eccezione più virtuosa – più empatico. Un mondo riempito dalla psicologia e dalla reciproca, sincera, comunicazione e comprensione, verso il tanto agognato cambiamento. Le nostre micro-tensioni ci condurranno o no, finalmente, a guardare verso l’alto ed assumerci la responsabilità di scegliere?

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