The elephant man, pellicola datata 1980 e firmata da un giovane ma promettente David Lynch agli esordi della sua sensazionale carriera, racconta la storia di Joseph (John) Merrick, nato a Leicester nel 1862 e tristemente passato alla storia con lo spiacevole vanto di essere stato uno dei più straordinari ‘freak’ (mostri) dell’Inghilterra Vittoriana. Lynch indugia poco, se non affatto sull’elemento immaginario e romanzato della storia del protagonista: John era affetto da una patologia la cui identificazione è attualmente ancora incerta nonostante la comunità scietifica abbia ipotizzato una sindrome di Proteo o neurofibromatosi, malattie congenite estremamente rare che causano l’insorgere di tumori sparsi in diversi punti del sistema nervoso, della pelle e delle ossa, condizione che aveva risparmiato solo il braccio sinistro e i genitali di Merrick. John prova a sopravvivere ingegnandosi: fa il venditore ambulante ma la sua malattia è degenerativa e gravemente debilitante e presto gli impedisce di camminare in posizione eretta. Così è ridotto a trascinarsi per le strade di una Londra che non gli mostra pietà alcuna né tantomeno indifferenza, dal momento che la sua condizione è visibile eccome e, nella sventura, lo rende il celebre protagonista del piu` acclamato freak show (spettacolo dei motri e fenomeni da baracone) della capitale.

“L’Uomo Elefante”: questo è il nome d’arte con cui è ribattezzato dalla platea dei suoi ammiratori e aguzzini, ma di umano la vita di John ha ormai ben poco…vive nell’oscurità di una cantina sotterranea da cui emerge solo in occasione dello show. La sua esistenza prende una svolta imprevista quando irrompe sulla scena Sir Frederick Treves, un giovane medico, interpretato da un altrettanto giovane Anthony Hopkins, che, incuriosito dalla singolarità della patologia che affligge John, prende a cuore il suo caso diventando ben presto il suo unico amico. Si apre così il percorso di riabilitazione dell’Uomo Elefante che abbandona i suoi panni bestiali per vestire quelli di un gentleman alla moda Vittoriana, riacquista il dono della parola, diventa il favorito dell’alta società londinese e soprattutto conquista chi lo disprezza svelando la sua estrema profondità. Lynch non esita a sottolineare la doppiezza di intenti e la natura ambigua dell’interesse del folto corteo dei neo ammiratori di John: sia che egli viva in uno scantinato angusto o piuttosto in una camera arredata con gusto raffinato e dotata di tutti i comfort, John rimane un prodigio della natura, una fonte di intrattenimento per i profani e una garanzia di successo e prestigio per la comunità di luminari che si occupano dello studio del suo caso.

Avrete intuito, cari spettatori, che la storia di John Merrick non è una  bella favola a lieto fine, non c’è posto per i sentimentalismi e l’epilogo non vedrà l’entrata in scena di una gentil donzella che tramuti la bestia in principe…e voi stessi siete divenuti complici di questa inaudita disumanità!

La carriera del regista, breve introduzione alla produzione giovanile.

David Lynch, il geniale e controverso artista di Missoula (Montana, Usa), è ancora un esordiente nella scena Hollywoodiana quando nel 1980 esce nelle sale questa enigmatica pellicola, prodotta e finanziata da Mel Brooks, già noto volto della comicità americana che pero` preferì non comparire nelle menzioni di ringraziamento. “The Elephant Man” seguiva, a distanza di soli tre anni, il primo lungometraggio girato da Lynch: ‘Eraserhead’ (la mente che cancella), un film macabro a cui l’aestethic black and white conferisce un sapore straniante, derivante dall’associazione di un setting industriale ad una citazione delle pellicole anni ‘30. Altrettanto alienante è la trama, se così la si puo` definire, che è piuttosto un intreccio onirico, surrealista, che ci lascia interdetti e insoddisfatti come di fronte ad un quadro di Dalí. Le due pellicole sono gemelle, entrambe, seppur in maniera diversa, si interrogano sul tema del mostruoso, del deforme, sfiorando a volte i limiti dell’horror, forse con un intento catartico? Il pubblico proverà disgusto, a tratti disprezzo, e attrazione fatale di fronte all’atroce ripugnanza dei protagonisti e minuto dopo minuto ultimerà la sua trasformazione in spietato voyer. è forse questa la provocazione a cui ci voleva sottoporre il regista dissidente per eccellenza?

Riflessioni sul tema del deforme nella storia e nell’attualità

Nella mischia delle numerose parole intraducibili della lingua greca antica ne esiste una rivestita da un fascino singolare: deinós. Le sfumature di significato sono numerose e sfaccettate e tutte contraddistinte da un comune denominatore, l’ambivalente connotazione positiva e negativa: infatti deinós indica si, qualcosa di staordinario e mirabile ma anche terribile e spaventoso. A questo punto la domanda sorge spontanea: perché siamo attratti da cio` che ci spaventa? L’uomo è un essere contraddittorio, enigmatico, una macchina imperfetta la cui essenza è costellata da simili antinomie. All’inizio del secolo scorso anche gli studi intrapresi da Freud e Jung avevano confermato ampio interesse circa la tematica dell’incoscio o ‘Es’ (contiene le nostre spinte pulsionali piu` arcaiche che si sono sottratte all’addomestimento sociale) dandoci una risposta puttosto eloquente: il diverso, a volte anche quello piu` raccapricciante, ha un appeal ineludibile sull’uomo perché ci promette un’opportunità di catarsi.

I mass media, nel secolo della comunicazione istantanea, si sono evoluti fino a diventare estensioni virtuali dei nostri arti, e come individui che vivono sospesi tra mondo fisico e virtuale siamo incessantemente sottoposti a stimoli di ogni genere; anche il voyerismo in quest’era è diventato socialmente accetabile. D’altronde se le consuetudini sociali ci impongono una serie di norme convenzionali a cui non possiamo sottrarci a quale altra soluzione potremmo ricorrere per poter preservare quella fiera selvaggia che dimora inquieta dentro di noi? Senza scomodare i mostri sacri della psicanalisi basta recuperare l’esempio degli antichi, greci e romani, che avevano intuito che una società sottoposta a costante repressione delle proprie pulsioni sarà destinata, prima o poi, ad implodere con conseguenze inaudite e a tal fine istituivano carnevali, feste dionisiache, spazi dedicati all’eccesso garantiti dallo Stato e tutelati dalla legge.

Abbiamo bisogno di quella ordinaria follia per poter scendere a patti con un’esistenza, tutto sommato, convenzionale. Siamo forse tutti un po’ voyer? Lo schermo è diventato il filtro della nostra esperienza, la dimensione invisibile sospesa tra proibito e accetabile, zona neutra dove tutto è possibile per il solo fatto di essere apparentemente distante da noi. Possiamo tirare un sospiro di sollievo, non importa quanto siano disgustose le immagini a cui siamo sottoposti, noi siamo protetti dal nostro scudo virtuale. Eppure cio` che alimenta il mercato del grottesco è un fenomeno molto piu` profondo di quanto riusciamo ad immaginare e di cui non vediamo altro che la punta dell’iceberg. I dipinti, le fotografie, i documenti scritti sono indicatori oggettivi che confermano il successo e la curiosità che i cosiddetti ‘prodigi della natura’ suscitano da sempre nell’uomo, varcando limiti temporali, culturali e geografici. Da una parte il mondo greco antico adottava delle prassi sociali crudeli ai nostri occhi: la cultura classica affondava le proprie radici nel mito estetizzante del “kalós kai agathós’ ( ‘bello e buono’, per cui si associa la bellezza fisica alla virtù morale) non lasciando spazio alcuno a chi non rientrava nella categoria che veniva emarginato e ascritto piuttosto al regno animale. La situazione non cambia molto, nonostante l’avvento della caritas cristiana, durante l’epoca medievale, età in cui la superstizione regnava sovrana e il terrore nei confronti della divinità veniva sfruttato dalle istituzioni politiche quale “instrumentum regni”(strumentalizzazione della religione): la deformazione fisica è segno eloquente del peccatto, l’esplicitazione del castigo divino. è a partire dal 1400 che si verifica un’inversione di tendenza: cancellata l’autorità imposta dai dogmi religiosi, gli uomini dell’età moderna si appassionano al curioso con uno scopo differente, quello dell’intrattenimento. Le fastose corti rinascimentali pululavano di “mirabilia” di ogni genere, che si trattasse del corno di un unicorno, del dente di un gigante o di un giullare di corte affetto da nanismo poco importava, bastava che divertisse e soprattutto che suscitasse l’invidia degli altri potenti. Per averne conferma basta rivolgersi alla cospicua collezione di quadri realizzati, qualche secolo piu` tardi, da uno dei piu` grandi talenti artistici del 1600: Diego Velazquez, pittore ufficiale della corte di Filippo IV, sovrano di Spagna.

La deformità è un tema se non altro insolito a cui dedicarsi con tanto fervore, come quello dimostrato da Velazquez, soprattutto se si risiede nella corte di Madrid, circondati da lusso e prosperità. Eppure quegli stessi nani, che a palazzo venivano considerati meno che bestie, nelle tele di Velazquez riacquistano l’umanità a cui avevano rinunciato per il pubblico intrattenimento. I freak show vittoriani sono dunque soltanto una tappa piu` recente di questa lunga storia di spettacolarizzazione del diverso, del deforme, che arriva fino ai giorni nostri, seppur in maniera piu` sottile e ‘politically correct’. Il dibattito circa la legittimità e il rigore etico di trasmissioni quali ‘Vite al limite’ (in onda su Real Time) o ‘Undateables’ (letteralemente ‘gli infidanzabili’, serie brittanica sponsorizzata da Channel 4) è acceso: questi show raccontano le storie di disagio e dolore di persone affette da disturbi alimentari, nel primo caso, e disabilità fisiche e intellettive, nel secondo. Molti si interrogano circa il limite tra lecita informazione e esposizione del pubblico alle difficoltà sperimentate nella vita quotidiana dai protagonisti e sfruttamento e spettacolarizzazione di questi ultimi con una finalità puramente ludica e ricreativa. Perché l’intrattenimento deve avverarsi al prezzo dell’umanità altrui? Di fronte allo schermo diventiamo tutti spettatori e approfittatori delle disgrazie del prossimo?

Forse queste domande resteranno insolute, nate e destinate a spegnersi con il genere umano, ma ‘The Elephant Man’ ci costringe di fronte ad un riscontro crudo, reale e orribilmente schietto: John Merrick nasce uomo, crescendo si trasforma in bestia, e sul limitare della sua esistenza esprime il desiderio di spegnersi da uomo, abbandonandosi al sonno eterno come un uomo. Nonostante le torture subite da parte di un’umanità glaciale, tutte le aspirazioni di John convergono nella remota possibilità di poter diventare, un giorno, parte di quella stessa società che lo ha cancellato, e poter, in fondo, essere accettato quale uomo. La vera ironia risiede nel fatto che, nonostante l’aspetto ferino, lo spettatore percepisca solo nel protagonista gli attributi della vera umanità: la sensibilità, la gentilezza d’animo, la vulnerabilità e l’alienazione, che ci caratterizzano e che tutti, a volte, sperimentiamo. Tuttavia John non rifiuta i suoi persecutori, e anzi, ripetutamente giustifica le angherie a cui è sottoposto come se condividesse la loro avversione verso sé stesso: lui è il diverso, il risultato di un tremendo errore commesso da madre natura, e come tale, è giusto che i “normali” lo trattino di conseguenza. Forse la questione con il quale Lynch obbliga lo spettatore a misurarsi non riguarda l’ipotesi, apparentemente ovvia, che la deformazione fisica dell’Uomo Elefante coincida con il volto della vera mostruosità. Forse, è piuttosto nei volti ordinari che si cela la bestiale natura dell’uomo e che tutti, talvolta, siamo stati e siamo tutt’ora i veri “mostri”.

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