Mi trovavo tra le maglie del deserto Uzbeko in quella che prende il nome di Ayaskala, anche detta fortezza del vento. Una fortezza è un termine che tuttavia non racchiude la maestosità del luogo logoro, ma ben cattura un elemento principale del paesaggio. Ayaskala, più che una fortezza sembra rappresentare il vento stesso, per quanto esso ne ha limato le fattezze. Sembra di entrare nel suo antro, uno specchio di un elemento così maestoso perché solo percepibile, e non visibile. Tale parvenza di edificio si innalza sulla steppa imperante, e per la prima volta nel nostro viaggio, ci fa sentire senza censure il carattere aspro di quelle terre. Finora siam stati ricoperti di orpelli, architetture razionaliste, oasi artificiali e artificiose. Adesso, entriamo nel cuore di questa terra, e per la prima volta siamo in Asia Centrale.

Caterina e Jamshid

Caterina, la nostra guida, è un personaggio pensoso. Gli occhi glaciali, il volto paonazzo, i capelli da dura, eppure sotto l’iceberg emergono sempre i suoi modi attenti, la sua dinamicità, la sua passione. “Dopo cena, troviamoci nella mia stanza” ci disse un giorno. “Per correttezza rispetto al mio mestiere, ho bisogno di mostravi del materiale che riguarda il vostro viaggiare più consapevoli rispetto a questo luogo, ma Jamshid non mi permette di parlare, e non vorrei infastidirlo.” Jamshid è la nostra guida locale, ha poco più di quarant’anni e vive a Samarcanda, il giorno in cui si presenta, abituato ai mali modi occidentali, ci dice che possiamo chiamarlo Jimmy. Figlio d’arte, è uno dei pochi uzbeki benestanti, avendo l’opportunità di lavorare nel turismo, dove gira l’euro.

La valuta locale (il sum) infatti, è talmente debole da rendere la possibilità di un viaggio in occidente un miraggio per i locals, che ci accolgono con autentico entusiasmo quasi ogni volta che ci incontrano. È difficile qui, capire con quale etnia ci si imbatta. Si incrociano soprattutto fattezze russe, tipicamente est-europee, e mongole, sempre più marcatamente asiatiche, ed egualmente l’architettura non ti permette di identificare quasi mai in che posto tu sia finito: si alternano mastodontici hotel di lusso a catapecchie di paglia e argilla, con i tetti in lamiera. I primi, ti traghettano in un’atmosfera spettrale per quanto privi di clienti. Eppure, son lì, vuoti, e sorgono come funghi, con i dipendenti fuori dalla porta attenti ad ogni stimolo, perennemente in attesa, e nel guardarli mi sovviene il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Ironia della sorte, questo posto brulica di Tatari (il termine Tartaro è, in effetti, una storpiatura), deportati in massa dalla Crimea ai tempi dell’occupazione Sovietica.

 

Ad ogni modo io quella sera con Caterina non ci andai. Fortunatamente, avevo già ottenuto l’opportunità di parlarle privatamente qualche giorno prima, nell’occasione di un viaggio in macchina che da Samarcanda ci avrebbe traghettato verso un mausoleo Sufi a tre ore dalla città. “Mi spiace dovervi raccontare queste cose privatamente, ma Jamshid ha una chiara versione di chi sia la guida qui, e non ho voglia di contrastarlo. Per me, l’importante è che oltre agli orpelli voi vi rendiate conto dei vari volti che può assumere un luogo. Perché qui, stanno ancora anni luce indietro sui diritti umani, e lo sfarzo che vedete non è che l’ennesimo tentativo di un regime illiberale di essere accettato dalla comunità internazionale passando per il turismo”. Ed in effetti, nell’apparenza l’Uzbekistan riesce bene. Tashkent e Samarcanda son cosparsi di luoghi d’attrazione esplicitamente pensati per il turismo, e gli abitanti conservano una genuinità e calorosità strappalacrime. Danzano in maniera devota all’esistenza, e permeano la siccità della steppa di colori soavi. Jamshid ci da una versione della storia, e valorizza con orgoglio il proprio paese, ma nemmeno lui ha voglia di celare le contraddizioni che ancora lo caratterizzano, nonostante sia figlio di un generale. “Fino a qualche anno fa, c’era l’ergastolo per il furto d’auto” ci rivela anche lui, “e ci hanno costretto a spaccarci la schiena nei campi di lavoro forzato, raccogliendo il cotone”, e poi “purtroppo non è possibile visitare il lago d’Aral a causa delle nubi tossiche ancora presenti, ma si tratta di un vero, mastodontico, disastro ecologico”.

Il lago d’Aral e i diritti umani

Il lago d’Aral era grande, un tempo, quanto il nord Italia, ed ora è ridotto alla stregua di un fiumiciattolo. Al centro di esso, vi era un’isola che oggi si confonde con il resto del paesaggio a causa della dipartita del lago, ove i sovietici hanno sperimentato con armi chimiche. Tali sperimentazioni hanno avvelenato la terra, ed oggi, senza la protezione dell’acqua, i venti provenienti dalla steppa innalzano polveri tossiche che hanno reso invivibile quella zona. Ma questo non è un segreto. Tuttavia, Jamshid, quando espone le contraddizioni del suo paese, parla quasi sempre al passato. Caterina ci parla invece degli esuli: omosessuali, pensatori liberi, sufi, che oggi in Uzbekistan ancora riempiono le file dei perseguitati politici. Sull’omosessualità c’è però stato un miglioramento, ci dice Jamshid. Sebbene sia ancora reato, fino a qualche anno fa sembra si avvalessero delle videocamere di sorveglianza all’interno dei supermercati, per scovare atteggiamenti sospetti, la cui conseguenza risiedeva nell’internamento psichiatrico.

L’Uzbekistan e le donne

L’Uzbekistan non è un paese islamico. Dopo l’ateismo severo imposto dall’URSS, si è tornati ad un liberalismo religioso, in un’ottica pluralista. Ma l’islam resta religione maggioritaria. Le donne camminano cinte di copricapi tipici, non simili ai soliti hijab, ma di nome paranja. Si tratta di un abito, in effetti, coprente sia testa che corpo, assimilabile al burqa arabo ma nelle fattezze più simile al chadari afghano. Nel nostro viaggio, abbiamo l’occasione di conoscere una donna che ha fatto la storia in Uzbekistan, essendo la prima mercante di suzani che abbia aperto la propria casa al pubblico. Quando la andiamo a trovare, nella madrasa dove tuttora vende i suoi decori, ci mostra con orgoglio le famose riviste (tra cui, The world of interiors) dove l’hanno pubblicata. Mastura è una donna fiera, indipendente. Veste con i vestiti tradizionali Uzbeki, e mostra il volto senza trucco, mentre contratta con grazia e fierezza sul prezzo di un Suzani. Ci accoglie nella sua maison, ci offre il thè versato in un servizio di ceramica dai motivi tipici uzbeki, con una miriade di datteri e cioccolatini di accompagnamento. Pochi giorni dopo, passeggiando per le vie notturne di Bukhara, ci imbattiamo in un negozio suntuoso di suzani. All’interno, troviamo buttata su una panca la medesima rivista, e il proprietario dell’attività si vanta bruscamente della foto in copertina, affermando si trattasse di casa sua. Scopriamo dunque egli essere il marito di Mastura, non riconosciuta invece come madre dal commesso, che successivamente scopriamo essere suo figlio. La donna era stata cacciata di casa qualche anno prima perché troppo poco osservante.

La matrioska da Samarcanda a Khiva

Durante tutto il nostro viaggio, Jamshid ci riempie di storia e cultura uzbeka. Soprattutto, si è parlato di Tamerlano, o Amir Temur, un famoso condottiero che occupò la regione ferocemente, spazzando via i mongoli. Recentemente, il regime in carica, ha scelto di proclamarlo patrono del paese, e si è glorificata la sua figura. Cosa che non ci sorprende molto nell’ambito di una sedicente democrazia semipresidenziale, ma nei fatti ancora parecchio autoritaria. Nel percorso da Tashkent a Khiva, si ha la percezione di proseguire all’interno di una matrioska, il cui cuore si raggiunge solo alla fine. Khiva è la ricostruzione perfetta del significato profondo di questa parte di mondo. Il transito delle carovane, il kaos dei mercati, la grazia dell’Adhan (chiamata alla preghiera islamica), il contrasto tra il blu intenso delle maioliche e il beige slavato della steppa desertica. L’Uzbekistan, come ci ricorda Caterina, è una terra d’incontro, il cui patrimonio storico culturale, tutt’ora, è inestimabile. Durante il periodo sovietico si è perso entro i tentacoli dell’URSS per cui “non si sapeva più dove andarlo a cercare”, quasi come se avesse perso la sua collocazione geografica. Adesso, si tratta di risorgere e riconquistare la sua presenza nel mondo, ma non saranno la sontuosità e il lusso i suoi baluardi, bensì l’umanità ed il cuore dei suoi abitanti, ancora in salvo, per ora, dalle atrocità perpetrate dai loro governanti oppressori.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here