Negli ultimi quarant’anni le relazioni fra Stati Uniti e Iran sono state caratterizzate da una tensione silenziosa difficilmente negabile, ma solo in tempi recenti degenerata in un conflitto ufficiale che rischia di tramutarsi in un pericolo per l’intero equilibrio mondiale.

I due paesi, in pace solo ai tempi dello Scià, dalla rivoluzione iraniana del 1979 sono stati protagonisti di una spirale autodistruttiva che, dopo minacce e accordi nucleari, sanzioni e freddezze diplomatiche, sembra essere giunta alla conclusione finale.

Dapprima furono gli USA a giocare un ruolo attivo nel lungo conflitto tra Iran e Iraq a partire dal 1980, poi toccò agli iracheni non limitarsi al ruolo di spettatori durante le guerre americane nel Golfo contro l’odiato Saddam Hussein, infine impiccato in piazza a Baghdad nel 2003. Nonostante il nucleare iraniano abbia sempre rappresentato una fonte di preoccupazione per gli americani, nel dopoguerra i rapporti tra le due potenze riescono ad entrare in una fase di normalizzazione, grazie ad una maggiore apertura commerciale e diplomatica cercata da ambo le parti.

La situazione però degenera nuovamente nel 2018 in seguito alla scelta del Presidente Donald Trump di far uscire la sua nazione dall’accordo nucleare con l’Iran, firmato dalla precedente presidenza Obama nel 2015. Inoltre il governo americano decide di aggiungere nuove tasse e sanzioni al popolo iraniano, provvedimento a cui Teheran risponde annunciando l’interruzione della dismissione dell’uranio arricchito e dell’acqua pesante che possiede. 

Il giorno stesso il Pentagono invia nel Golfo la portaerei USS Abraham Lincoln e quattro bombardieri strategici B-52 al fine di proteggere gli Stati Uniti da un’eventuale attacco iraniano. Un gesto solo apparentemente difensivo e in realtà di natura controffensiva. E’ l’inizio di un’escalation di violenza mai verificatasi prima tra i due paesi.

Il 31 dicembre, per vendicarsi della mossa americana, migliaia di manifestanti iracheni prendono d’assalto l’ambasciata statunitense a Baghdad, in Iraq, causando ulteriori disordini nelle strade e feriti. Un episodio sintomatico sia della grave crisi interna degli ultimi mesi, provocata dall’incremento del prezzo del carburante e dalle sanzioni americane, che degli squilibri avvenuti nello scacchiere politico mediorientale.

Secondo Trump e Mike Pompeo, Segretario di Stato degli Stati Uniti, il regista di quest’ultimo assalto è Qasem Soleimani, generale iraniano e comandante delle Quds Force, l’unità delle Guardie della Rivoluzione che è riuscita a diffondere l’ideologia khomeinista fuori dalla Repubblica Islamica.

La risposta di Trump dunque non tarda ad arrivare: Soleimani è ucciso il 3 gennaio da un drone statunitense proprio a Baghdad, assieme ad Abu Mahdi al-Muhandis, capo delle Forza di Mobilitazione Popolare sciite irachene. Trump ha dichiarato di aver dato l’ordine al fine di prevenire gli attacchi a obiettivi statunitensi che il generale Souleimani stava pianificando in Iraq. Accuse plausibili ma impossibili da dimostrare e, dunque, prive di legittimità giuridica.

Un’operazione certamente di successo sotto il profilo della Intelligence, ma che rappresenta un azzardo da un punto di vista diplomatico e strategico, soprattutto alla luce della reazione iraniana. In primo luogo, l’assassinio di un esponente di un altro governo, seppur nemico e potenzialmente pericoloso, può rappresentare in futuro un pericoloso precedente anche per quanto riguarda le scelte delle altre nazioni. Inoltre, dalla sua morte, la figura di Solemaini ha assunto i connotati di un martire, tanto da contribuire a ricompattare il paese, animato dalla sete di vendetta e riunificato dall’odio condiviso verso il nemico americano.

Con questi presupposti, la controffensiva iraniana arriva nella notte tra il 7 e l’8 gennaio, per mezzo di attacchi mirati su due basi militari statunitensi in Iraq: quella di Al Asad, vicino Baghdad, e quella di Erbil, nel Kurdistan iracheno. Un’ulteriore prova delle capacità belliche e militare iraniane. Poche ore dopo, un aereo delle Ukraine Airlines da poco decollato dall’aeroporto Imam Khomeini di Teheran precipita causando 176 vittime.

L’Iran, dopo avere negato ogni responsabilità – sostenuto dalla Russia – ed essersi inizialmente rifiutato di consegnare a Kiev le scatole nere, ha poi, per ordine di Khamenei, attuale Guida Suprema nazionale, ammesso di aver abbattuto “per errore” il velivolo perché scambiato per un aereo nemico. Al contrario, è opinione del governo statunitense ritenere che lo scopo iraniano fosse quello di uccidere i soldati statunitensi presenti nel territorio.

Tuttavia, vista l’assenza di vittime americane, Trump ha dichiarato di voler cessare le ostilità per ottenere una tregua militare. Il Presidente ha comunque aggiunto nuove tasse ai danni degli iraniani, puntando a colpire anche le società straniere che acquisteranno materie prime o semilavorati da Teheran.

Nonostante una vera conclusione del conflitto sembri essere ancora lontana, la minaccia di una terza guerra mondiale è stata fortunatamente ridimensionata e tenuta sotto controllo. Gli Stati Uniti sono consapevoli che, nel caso di un intervento nucleare, verrebbero unanimemente condannati da tutte le istituzioni internazionali, ONU in primis, ma anche dal resto del mondo.

Soprattutto determinerebbe una reazione anche di natura militare da parte della Russia e di tutti i paesi alleati con l’Iran, tra cui anche la Cina. Senza contare l’ulteriore destabilizzazione che una mossa di questo tipo causerebbe all’equilibrio mediorientale generale.

La speranza è che questi nuovi segnali di distensione procedano nella giusta direzione, attraverso il dialogo e la mediazione tanto delle istituzioni internazionali e religiose varie, ma soprattutto con il supporto delle altre nazioni, il cui contributo alla pace è più che mai necessario per scongiurare il conflitto su vasta scala.

USA VS. IRAN: TERZA GUERRA MONDIALE IN ARRIVO?

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