Breve uscita in un paesino del sud

Vivere in un piccolo paesino sperduto tra le montagne, con una popolazione che non arriva a 3000 abitanti, difficilmente fa notare la differenza tra un prima e un dopo quarantena. Girare per le strade oggi deserte non sembra poi tanto diverso da com’era precedentemente all’entrata in vigore delle misure restrittive. Poche persone in giro e una desolazione che nei giorni di maltempo rende tristi.

Mormanno è un piccolo borgo di epoca longobarda al confine nord della Calabria, situato a 840 m sul livello del mare, immerso nel parco del Pollino, circondato da monti, campagne sconfinate, a mezz’ora di macchina da entrambe le coste, e con un laghetto artificiale. Un paese del sud, pieno ad agosto e vuoto per il resto dell’anno, isolato prima dell’autostrada e della motorizzazione a buon mercato, e in cui il coronavirus in altre epoche sarebbe stato solo un sentito dire; una notizia sgangherata riportata male da un forestiero o da qualcuno che tornava dal mercato fuori paese.

Il virus qui non è arrivato fisicamente – qualche sparuto caso nei paesi più o meni vicini -, ma qui ci è voluta l’informazione in continuo aggiornamento per far entrare il mostro nelle case di tutti come concetto, come paura dell’ignoto. E così l’obbligo della quarantena è stato accettato senza intralci; neanche la tipica tracotanza tutta meridionale del fottersi delle regole ha osato mettere in discussione il provvedimento e, più per timore che per spirito nazionale, in pochissimo tempo le strade si sono completamente svuotate.

Passare in macchina adesso fa un certo effetto che affiora nelle piccole differenze rispetto a prima: i bar serrati nelle loro saracinesche senza i soliti sfaccendati li davanti, il cinema chiuso, il campetto sportivo prima sempre con qualche partita in corso ora deserto – a terra ci sono ancora le casacche sotto le panchine da far sembrare che l’ultima volta tutti siano corsi a casa d’improvviso senza mettere in ordine. Le scuole sono chiuse e nessun ragazzo è in strada. Un silenzio timoroso domina tutto il territorio comunale.

In piazza la chiesa madre è chiusa. Strano vederla così. Sulla facciata ci sono dei lavori di restauro in corso già iniziati tempo fa, prima del virus. <> mi dice un operaio, <> mi indica la parte alta. La guardo con attenzione e mi sembra di vederla con un occhio diverso, nuovo direi, particolari che sono stati sempre lì, che ho sempre visto, ma che adesso mi appaiono in tutta la loro autenticità, come se prima non me ne fossi mai reso conto. La chiesa è una cattedrale che si affaccia su una piazza piccola e stretta, e io sono ai suoi piedi, con la facciata in stile barocco che è immensa, le porte gigantesche, che mi sovrasta nella sua solennità facendomi sentire minuscolo. Ne ho timore e ne sono attratto allo stesso tempo, ha raggiunto il suo obiettivo chi l’ha costruita. Sarei tentato ad entrare ma è chiusa. Pazienza. Dietro di me c’è la farmacia, dirimpetto alla chiesa.

Il classico connubio architettonico delle piazze italiane, chiesa da un lato e farmacia dall’altro. Alcune persone a debita distanza l’uno dall’altra attendono il proprio turno. Hanno tutti la mascherina, io no. Mi sento a disagio tanto che l’aria mi sembra sia diventata più pesante. Neanche fossimo a Chernobyl, penso, e mi allontano. Proprio in quel momento mi passa a fianco Don Luigi con un mazzo di chiavi in mano. Ha il passo accelerato e la mente altrove, che quasi inciampa nella tonaca e nemmeno se ne accorge. <>, lo saluta qualcuno, e distrattamente gli ricambia la cortesia.

Una signora che sta attendendo il suo turno per entrare in farmacia prova a fermarlo, vorrebbe sapere quando si potrà tornare in chiesa. Il prete non si ferma, continua dritto nel suo passo facendo spallucce e allargando le braccia, e svicolando dall’incontro con la fedele indicandole la sagrestia in segno di affari urgenti e improcrastinabili. Non dice una parola, e se non vado errato, sta trattenendo il fiato. Sarà perché non ha la mascherina, e non basta la protezione di Dio per evitare di essere contagiati.

Abbandono la simpatica scena e continuo per la mia strada. Devo recarmi presso un’alimentari che non è molto distante. Davanti al locale c’è un piccolo assembramento in cui però pare si rispetti il metro di distanza con tanto di mascherine. Vedo Rocco, il proprietario, che discute animosamente con Michele Spanò il quale lavora alla posta lì davanti. Stanno a tre metri di distanza l’uno dall’altro, ognuno sul proprio uscio, alzando la voce e sventolando il pugno a mò di minaccia, con il mucchietto di gente così interessata che aspetta volentieri a pagare la bolletta o a fare la spesa.

Da un lato c’è Michele ‘u pinguinu’, uomo focoso, detto così’ perché quando cammina tende ad allargare verso l’esterno i suoi piedi, professione: impiegato alle poste dal ’78. Un tempo fiero comunista fino a quando non ha capito che la proprietà va bene dividerla ma non è bene dividere i voti in famiglia per il candidato. E così oggi è possessore di due macchine – una per sé e una per la moglie -, due case di proprietà di cui una al mare, una vigna, figlia all’università Cattolica, e il capitale di Marx utilizzato per lanciarlo in testa ad un testimone di geova che non voleva andarsene dalla sua proprietà.

A discutere con Michele c’è Rocco Pizzuto, il proprietario dell’alimentari, così alto che sta sempre con la testa fra le nuvole, ed è per questo che dicono sia un po’ stupido. I due sembrano una gag: uno alto e allampanato, l’altro basso e tarchiato. La discussione verte sul cane di Michele che a detta del Pizzuto gli va a mangiare i pomodori piantati nel suo orto. <>, gli risponde sarcastico Michele, << ma il mio cane non si rovina lo stomaco a mangiare quelle schifezze che pianti tu>>. Colpito nell’attività – e nel cuore – Rocco ribatte con prontezza di spirito << a me sembra come al padrone, mangia, ingrassa e non dice neanche grazie>>. Segue un breve batti e ribatti con saluti poco convenevoli e ognuno se ne torna sbuffando dentro al rispettivo locale scusandosi con chi era in attesa, che per dovere di cronaca non mi sembravano tanto annoiati. C’è da dire che tra i due di litigi del genere se ne vedono spesso, e solitamente finiscono con un bicchiere di vino al bar la sera, ora il coronavirus mette a dura prova la loro riappacificazione.

Finite le mie compere non ho voglia di tornare a casa, e con la scusa sull’autodichiarazione ne approfitto per fare un giro un po’ più lungo per dare un’occhiata in giro. C’è il sole questa mattina e passare per i vicoli profumati del cibo che si comincia a preparare per il pranzo mi riempie il cuore. Riguardo il paese con gli occhi che avevo da bambino. Una sensazione familiare e diversa mi prende nel vedere i luoghi della mia infanzia.

I portoni che una volta erano sempre aperti, pieni delle ciarle vivaci delle comari, ora sono chiusi, e non è stato il coronavirus, ma qualcosa di più radicale, come l’emigrazione e le morti di tanti volti che adesso stanno animando i miei ricordi. Spunta il viso di mia nonna, piccola, rugosa e amorevole, è tanto tempo che ci ha lasciati, ma ora è come se la vedessi sopra quelle scale a parlare con la sua vicina mentre sbuccia le fave e si mastica la dentiera che non le vuole stare ferma. Ah, dolci ricordi.

Proseguo e mi trovo davanti Mimina e Zia nunziata, ultime superstiti del vicinato, mentre si godono uno dei primi soli caldi di primavera. Le saluto. Loro mi riconoscono a stento, sanno chi sono ma non ricordano il mio nome, manco da molto d’altronde. E’ zia nunziata – che in realtà è zia solo per un simpatico modo di dire – a parlare: “Tu sei il figlio di Anna?” gli rispondo di si, sono Marco. Gli si illuminano gli occhi, ricordano tante cose, mie, dei tempi passati, dei miei genitori, e anche delle mie sorelle che non sono in paese e mi chiedono di loro. Finiti i convenevoli del ritrovo mi dicono che stavano parlando delle notizie che venivano dalla televisione: il virus, i contagi, i morti, la gente chiusa in casa.

Entrambe hanno visto la guerra, erano piccole ma se la ricordano. “Allora sì che si stava male, la farina mancava veramente mica come oggi che manca perché tutti si fanno la pizza”. Zia nunziatina ha sempre parlato di più rispetto a Mimina, chissà come mai. Continua dicendomi che non è tanto il virus a farle paura, perché tanto oramai tiene l’età sua, “ma è la paura per i nipoti che sono piccoli e stanno in città, con i genitori che ringraziamo Dio lavorano e non possono tornare.” Anche Mimina ha un figlio, sta in campagna e con la quarantena non è potuto andare a trovarla.

 

Sono sole, rintanate nelle loro case, fanno fatica a muoversi, l’unico momento in cui possono vedersi e parlare è quando uno spicchio di sole illumina le scale che portano alle loro porte. Così ognuna si porta una sedia da casa e si siede vicino all’altra dove il raggio di sole brilla di più. A distanza di un metro, mi assicurano. <> le domando io incuriosito ricordando la loro fervente osservanza religiosa. <> mi dicono, <<è fastidioso, ma bisogna accettarlo.>> perciò seguono il papa in diretta la mattina alle sette su rai1. <>. Sprazzi di un mondo antico che si sta perdendo. Ci salutiamo nella speranza che questo coronavirus passi presto e con un buon auspicio. << fino a quando il sole sorgerà ci sarà sempre speranza>>.
Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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