Caso Riders: intervista all’Avvocato Del Lavoro Alessandro Brunetti
Una breve panoramica
A fine maggio un’indagine condotta dalla procura di Milano ha portato al commissariamento di Uber Italy srl, la filiale italiana del gruppo americano, con l’accusa di caporalato. Il tribunale ha preso tale misura di prevenzione a causa dello sfruttamento dei rider che lavorano per la piattaforma Uber Eats. Sono emersi infatti alcuni indizi che porterebbero ad affermare che tale piattaforma abbia potuto agevolare nel tempo i suoi dipendenti ed altri intermediari al reato di sfruttamento del lavoro. Non è una novità che la magistratura debba intervenire per arginare lo sfruttamento del food-delivery. Il comportamento di queste piattaforme si conferma ancora una volta inaccettabile, a causa dello sfruttamento a cui i riders sono ogni giorno costretti a sottostare, pur di percepire una paga. Lavorando precariamente e con una quasi totale assenza di tutele. L’episodio di Milano non sarà sicuramente l’ultimo, soprattutto se la politica non intervenire con tempestività su quello che è ormai a tutti gli effetti diventato il “ caso Riders”. Per fare luce sulla complessa e contorta vicenda dei riders abbiamo intervistato l’Avvocato Del Lavoro Alessandro Brunetti che ringraziamo per la disponibilità.
Che tipo di contratto sottoscrivono i riders?
I riders nella maggior parte dei casi sottoscrivono un contratto di collaborazione coordinata e continuativa (c.d. co-co-co). Un contratto di lavoro formalmente autonomo, che si reitera nel tempo e prevede un livello minimo di coordinamento. La legge sancisce che il datore di lavoro deve scegliere quale contratto sottoscrivere in base al tipo di prestazione lavorativa e non in base alla convenienza. Sono pertanto le modalità della prestazione lavorativa a determinare la legittimità o meno di un contratto. Questi contratti di collaborazione coordinata e continuativa applicati ai riders sono quindi tutti illegittimi, per le modalità con cui si esplicano. Il rider lavora infatti con caratteristiche tipiche della natura subordinata del rapporto. Entrando nel merito c’è stato un recente intervento normativo, che ha riempito un vuoto nel jobs act, estendendo le tutele contro gli infortuni anche ai rider che lavorano con la piattaforma. L’assenza di una copertura infortunistica, la mancanza di tutti gli istituti tipici della subordinazione e l’addossamento di tutti i costi attribuibili al lavoro a carico del lavoratore costituivano una mancanza molto grave.
Che implicazioni negative permangono a causa della natura di questo contratto?
Permane però la problematica relativa al contratto Co.Co.Co. rispetto al contratto di lavoro subordinato, poichè consente al datore di lavoro il licenziamento senza dover necessariamente addurre una giusta causa o un giustificato motivo. Questa libera rescindibilità del rapporto è la fonte principale del livello di precarizzazione di questo tipo di lavoratori. Non c’è poi da parte dei riders la possibilità effettiva di organizzare il lavoro in maniera autonoma, e anzi fanno parte di uno schema del lavoro molto rigido, deciso dalla piattaforma che tra l’altro assegna indici di rating in base al numero di consegne effettuate e alla produttività. Ciò incentiva la possibilità per un rider di avere più possibilità di lavoro rispetto ad un altro. Per non parlare del fatto che esistano fasce di lavoro più redditizie di altre. Emerge quindi un’organizzazione del lavoro in cui il rider non ha alcuna possibilità di poter imporre alcunchè.
A che punto si trova la contrattazione collettiva tra le organizzazioni sindacali e datoriali dei riders comparativamente più rappresentative a livello nazionale?
C’è un problema abbastanza antico. C’è una scissione molto netta tra una componente auto-organizzata e una istituzionale. Quella auto-organizzata è fortemente rappresentativa ma non viene però riconosciuta dai datori di lavoro. E quindi quest’ultimi non concedono un tavolo a cui sedersi per imporre delle condizioni migliorative del rapporto di lavoro a questa componente auto-organizzata. Quella istituzionale invece, che non è cosi rappresentativa dal punto di vista numerico, viene però scelta dai datori di lavoro come interlocutore stabile.
Come si stanno comportando le piattaforme del food delivery nell’attuale emergenza sanitaria?
Dalle cronache emergono comportamenti molto contraddittori. L’Italia con il lockdown si è trasformata in un gigantesco ospedale. Dove le nostre case erano come tante camere d’ospedale, nelle quali i riders venivano per consegnare il vitto, come fossero infermieri. I riders si sono esposti in maniera elevata a soggetti malati o potenzialmente malati. Le notizie sono di società che non hanno fornito dalla fase iniziale i dispositivi di protezione individuale. Ciò è molto grave perchè l’Inail afferma che la contrazione del covid-19 durante le prestazioni lavorative è da considerarsi un infortunio. Ma con la mancanza di fornitura dei dispositivi di protezione individuale da parte del datore di lavoro si vanno a configurare dei profili penali. Ciò che è in gioco in questo periodo di emergenza sanitaria globale è la vita, e l’emergere di tali vicende è molto grave. Ancora più grave della problematica relativa alla misera paga dei riders.
Secondo Lei sarebbe utile una legislazione specifica per tutte quelle categorie di lavoratori che fanno riferimento ad una piattaforma online?
Va assolutamente evitato. Per anni il movimento di emancipazione del lavoro e dal lavoro si è battuto contro l’idea dei finti lavoratori autonomi con un po’ di garanzie della subordinazione. E’ necessario infatti che la realtà fattuale prenda il sopravvento su quella formale. Un lavoratore subordinato non ha bisogno di una normativa ad hoc, nella quale gli vengano riconosciute una manciata di tutele. Ma ha bisogno di tutte le tutele della subordinazione e non di una sola porzione, al netto della peculiarità del tipo di lavoro. E’ necessario un altro discorso da intraprendere, più interessante, che costituisce una lacuna su cui bisogna agire. Non riguarda i lavori della gig economy. Parliamo infatti di quei lavoratori veramente autonomi che autodeterminano davvero l’organizzazione del lavoro, i tempi e le modalità della prestazione. Solitamente si trovano in regime di totale monocommittenza o lavoro diretto. In queste circostanze, dove si configura veramente l’autonomia, va individuato un catalogo di diritti di base che preveda una forma di tutela contro il recesso illegittimo dal contratto. Il governo Renzi ha sbandierato dal punto di vista mediatico come un grande successo il famoso jobs act del lavoro autonomo. Quando in realtà è un testo vuoto, come molte delle parole del governo Renzi. Un vuoto che necessità di essere riempito.
Crede che il ruolo di ” lavoro necessario ” che il governo ha assegnato ai riders possa fungere da catalizzatore nel processo giuridico di attuazione dei diritti di cui questi lavoratori dovrebbero godere?
E’ auspicabile. Bisogna sperare che le forme di lotta che spontaneamente emergono dal basso si vadano a consolidare con il tempo. Esse sono maggiormente rappresentative, e devono riuscire in qualche modo a creare delle piattaforme comuni, per coinvolgere una platea sempre più amplia di riders. Infatti solo attraverso il conflitto sindacale dal basso è possibile una via d’uscita. Al contrario, è difficile che i rappresentanti istituzionali possano essere dei protagonisti sostanziali. Poichè sono meno rappresentativi e poco radicati nel corpo sociale di cui stiamo parlando. Generalmente i protagonisti che scelgono la controparte per trattare non sono quelli più radicali ma tutt’altro. Invece le componenti radicali ,che esistono e hanno il consenso della stragrande maggioranza dei lavoratori, si spera che possano raggiungere un tavolo contrattuale ed essere protagonisti in prima linea delle lotte.
Direttore responsabile: Claudio Palazzi