Come sarà il mondo dopo il coronavirus

Il coronavirus è stato come dell’acqua gelata gettataci addosso mentre sbandavamo nel nostro stato di incoscienza da sbornia perenne. Gli eccessi del capitalismo che tanto avevano illuso, e di cui giornalmente ci ubriacavamo, sono sfumati in uno starnuto. E così la società del nuovo millennio, il non plus ultra del processo evolutivo, d’improvviso ha dovuto chiudersi in casa a fare i conti con sé stessa.

Il virus ha avuto un impatto così stravolgente che è bastato poco tempo per mettere in discussione tutte le certezze che pensavamo incrollabili: l’uomo moderno non è più immortale, la fragilità del sistema economico è diventato un fatto reale, e la consapevolezza del nostro essere ci ha avvicinato a quella storia che per molto tempo è stata relegata a semplice resoconto di accadimenti lontani. E così quel mondo in bianco e nero dell’influenza spagnola, con le sue testimonianze ingiallite, riemerge a galla e ci sembra così familiare, più vicino di quanto mai avremmo immaginato. Quelle foto che fino ad un mese fa avremmo guardato con la stessa indifferenza di come si guarda alle guerre medioevali, adesso ci scombussolano, ne piangiamo le morti e ne condividiamo le paure, e come allora ci sentiamo impotenti di fronte all’avanzata del virus.

Viene da chiedersi se oggi, una volta superata l’emergenza, il mondo potrà conoscere una fase di prosperità come quella che ci fu durante gli anni venti del novecento, i famosi Roaring twenties e l’età del jazz. All’epoca si aveva voglia di lasciarsi tutto alle spalle, la gente voleva dimenticare gli orrori della guerra, e i progressi economici, tecnologici e sociali determinarono un generato miglioramento nelle condizioni di vita di tutti.

E’ possibile ipotizzare che qualcosa di simile possa accadere anche una volta finita l’emergenza coronavirus, tenendo ben presente che quel decennio si concluse con la Grande Depressione e l’avvento delle dittature, ma tutto dipenderà dalle scelte che verranno prese da persone e governi una volta che il rischio comincerà ad attenuarsi.

E’ opinione comune degli esperti che poco o niente sarà più come prima. Il mondo come lo conosciamo oggi è destinato a subire un profondo cambiamento che lo porterà ad entrare in una nuova fase già iniziata tempo fa, e che il virus, e le misure adottate per contrastarlo, hanno contribuito solo ad accelerare. L’era della quarta rivoluzione industriale entrerà in pieno regime, e la “shut-in economy” sarà il modello di riferimento dell’operare umano.

A ribadire il concetto è (ma non solo) Gordon Lichfield, direttore del Mit Technology Review – il Massachusetts Institute of Technology, secondo il quale dovremo fare i conti con un nuovo stile di vita diverso da quello di prima, in cui il processo di digitalizzazione sarà definitivo e completo, e porterà a conclusione definitiva il passaggio dal mondo analogico a quello digitale. Non certo qualcosa di nuovo, ma sicuramente più incisivo e totalizzante.

Tutto passerà attraverso la tecnologia, e anche le nostre relazioni ne saranno soggette. Sembra che l’isolamento che stiamo vivendo adesso diventi la normalità di una società più attenta e distaccata che opera da remoto. Sul piano lavorativo molte aziende stanno creando sistemi che permettono di lavorare da casa tramite smart-working, e a cui molti lavoratori si stanno abituando, che probabilmente continueranno ad esistere una volta tornata la normalità. E qui uno dei vantaggi più grandi, sottolineato da molti esperti, è proprio il fatto di poter operare da casa.

La possibilità di non essere costretti ad andare a vivere in rumorose e affollate periferie, partire con il buio per rimanere incastrati come sardine in mezzi di trasporto lenti e scadenti o restare imbottigliati per ore nel traffico, permetterebbe un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, dei rendimenti delle aziende, e anche il livello di inquinamento ne gioverebbe grazie alla riduzione degli spostamenti casa-lavoro.

La stessa didattica seguirebbe l’influsso dell’evoluzione tecnologica, dalle scuole primarie fino alle università, cambiando i sistemi di insegnamento così come li abbiamo sempre conosciuti. Specialmente per le università la risposta digitale in molte facoltà sarebbe la soluzione a problemi di sovraffollamento di aule, e la garanzia per molti studenti fuorisede di non essere costretti a spostarsi in un’altra città per studiare, con tutte le spese enormi che ne derivano. Che sia per motivi di lavoro o di studio, in questo modo si offrirebbe anche una soluzione allo spopolamento che porta a svuotare interi paesi. Qualcuno già parlava di “costo decrescente della distanza”, e la crisi del coronavirus accelererebbe questo processo.

Dovremo imparare a vedere anche la medicina in maniera differente: la telemedicina sarebbe la risposta che eviterebbe alle persone di recarsi in strutture di assistenza sanitaria di base dove i virus circolano più facilmente, guadagnandone anche in rapidità ed economicità. Inoltre l’utilizzo di apparati tecnologici sofisticati permetterebbe in futuro di dare risposte più veloci nella gestione di eventuali diffusioni di nuovi e sconosciuti virus, come hanno fatto in Corea del sud, in Israele e in Cina, dove i governi hanno predisposto misure di controllo iper-tecnologiche per arginare l’avanzata dell’epidemia.

Ed è qui che la tecnologia appare in tutta la sua evidente contraddizione. In questi Paesi sono stati utilizzati strumenti che hanno permesso il monitoraggio completo degli smartphone dei cittadini, la mappatura dei loro movimenti, l’uso di telecamere facciali, e app che avvisano quando si entra nella zona di raggio di un infetto.
Basti pensare che in Israele alcune di queste misure vengono utilizzate per il controllo di sospetti terroristi.

E anche in Lombardia, seppur in modo più lieve (ma comunque illegittimo), sono state adottate misure di controllo come la mappatura degli smartphone per vedere se le persone uscivano di casa.

La domanda che nasce spontanea da più parti è perciò se per tutelare la salute pubblica si possa arrivare a sconfinare nei diritti delle persone. Sentirlo dalla Cina non è una novità, anche se molti giovani stanno cominciando a porsi delle domande dopo la quarantena, ma nel mondo occidentale si arriverebbe ad un punto di non ritorno che renderebbe vane le conquiste dell’ultimo secolo.

In un periodo storico di un Occidente minato da nazionalismi sempre più imperanti, una pandemia provoca incertezza e paura nella popolazione già sfiduciata, che per sentirsi più al sicuro potrebbe chiedere maggiore sicurezza in cambio di limitazione delle proprie libertà. A quel punto partiti e governi populisti cavalcherebbero l’onda invocando le paure più ataviche della gente, stigmatizzando lo straniero e prospettando la chiusura dei confini.

Trump che ha definito più volte il virus sottolineando la sua provenienza cinese è un precedente che potrebbe essere seguito in futuro nella narrazione politica nazional-populista in tutto il mondo. E la recente attribuzione ad Orban dei pieni poteri a tempo illimitato per la gestione della crisi sanitaria preoccupa e sgomenta.
Di fatto alcuni già parlano di “prima dittatura d’Europa”.

Un’analisi interessante sull’utilizzo della tecnologia per la gestione dell’emergenza è stata fornita da Yuval Noah Harari, storico, saggista e professore universitario israeliano, che dice come “questo momento di crisi debba essere affrontato con scelte particolarmente importanti: quello tra sorveglianza totalitaria e responsabilizzazione dei cittadini. E tra l’isolamento nazionalista e la solidarietà globale.”. Nel suo articolo pubblicato sul FT, Harari, ci snocciola in maniera lucidamente sconfortante la distorsione che genererebbe l’utilizzo della tecnologia lasciata completamente in mano ai governi per il controllo delle pandemie – sul modello cinese o israeliano –, quasi da scenario orwelliano o da puntata di Black Mirror.

In sostanza Harari dice che seppur all’apparenza alcuni metodi di controllo per arginare la diffusione del virus potrebbero essere utili, non si può scegliere tra la propria privacy e la propria saluta, bisogna godere di entrambe. Lasciare oggi al governo la possibilità di controllare in maniera incontrastata le nostre vite ci dà la sicurezza che il virus venga limitato nella sua circolazione, ma una volta finita l’emergenza chi ci assicura che queste misure vengano abbandonate? Harari fa prende in esempio lo Stato di Israele, quando durante la guerra di indipendenza del 1948 ha dichiarato lo stato di emergenza, emanando alcune misure temporanee (censura della stampa, confisca delle terre, o “regolamenti speciali per preparare il budino”), e che oggi molte di quelle misure non sono state ancora eliminate.

Secondo il professore israeliano, quindi, “il monitoraggio centralizzato e le dure punizioni non sono l’unico modo per far sì che le persone rispettino le linee guida benefiche. Quando le persone vengono informate dei fatti scientifici e quando le persone si fidano delle autorità pubbliche per dire loro questi fatti, i cittadini possono fare la cosa giusta anche senza un Grande Fratello che vegli sulle loro spalle. Una popolazione auto-motivata e ben informata è di solito molto più potente ed efficace di una popolazione ignorante e controllata.”

Harari cita anche un secondo problema da considerare: la scelta tra isolamento nazionalista e solidarietà globale.
Come lui anche per molti esperti la via della chiusura nazionale sarebbe da evitare. Se la pandemia ci sta insegnando qualcosa è che la cooperazione tra gli Stati è fondamentale per uscire quanto prima dal livello critico. Aiuti economici e sanitari sono indispensabili per affrontare l’emergenza, e il know-how informativo darebbe una grande spinta per la ricerca di una cura (una cura che viene scoperta da un medico a Milano, potrebbe essere utilizzata e migliorata da un medico a NY, e a sua volta sarebbe riutilizzata e migliorata ulteriormente da un medico a Berlino).

Perciò la cooperazione dovrebbe essere il leitmotiv che i leader mondiali dovrebbero seguire per uscire dal baratro. Ma al momento sembra che siamo ancora lontani. I leader globali non hanno ancora affrontato in maniera efficace e coordinata l’emergenza. E al momento senza uno Stato che si assuma la responsabilità di guidare il mondo, a detta di molti, sembra difficile che si esca dall’emergenza senza le ossa rotte.

Gli Usa non rivestono più questo ruolo. Il presidente Trump ha annunciato di aver inviato 100 mln di aiuti sanitari in Italia, ma non dà l’idea che gli Usa abbiano intenzione di riprendere il ruolo guida che hanno rivestito per tutto il novecento. E al momento è difficile trovarne un altro. La Cina, che tanto si sta prodigando in aiuti internazionali, sarebbe impensabile come probabile leadership, sarebbe vista male e poco voluta. Intanto l’Europa vaga come sempre nella sua ricerca di identità, annegando nella sua insicurezza.
Se il vuoto della leadership non sarà riempito è difficile uscire dalla pandemia in maniera definitiva, “il suo retaggio continuerà ad avvelenare le relazioni negli anni a venire”, come dice Harari.

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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