Il sistema carcerario italiano resta un sistema inefficiente e profondamente ingiusto malgrado i modesti progressi in termini di affollamento degli istituti carcerari registratesi nel corso del 2020. Il 2020 ha portato con sé la pandemia, e con essa l’evidenza dell’inadeguatezza di molti apparati pubblici dello Stato: primo fra tutti la sanità, dove anni di tagli hanno messo in ginocchio un servizio pubblico fondamentale incapace di gestire un’emergenza inaspettata e colpevolmente non preventivata. Violenza di Stato: come ripensare il sistema carcerario italiano Direttore responsabile Claudio Palazzi
La pandemia ha reso ancora più attuale il problema strutturale principale delle nostre carceri, quello del sovraffollamento. Problematica che esiste da anni e a cui non si è riusciti a trovare una soluzione. Il recente scandalo del carcere di Santa Maria Capua Vetere non è altro che l’ennesimo campanello d’allarme di un sistema allo sbando, i cui i problemi non si limitano all’aspetto organizzativo, ma coinvolgono la sfera sociale e culturale, e evidenziano la necessità di ripensare interamente al sistema carcerario italiano.

Come accennato, il 2020, annus horribilis per le nostre carceri, ha registrato almeno un passo in avanti in termini di affollamento: con il ricorso alle misure alternative alla detenzione il numero di detenuti rinchiusi nelle nostre carceri è sceso di circa 8000 unità. Tutto ciò per assicurare una boccata d’aria ad un sistema in sofferenza, incapace di mantenere gli standard di protezione e di distanziamento durante la pandemia. La pandemia ha avuto l’unico merito di farci rendere conto di quanto fosse impellente intervenire in determinati settori come quello sanitario o carcerario, settori in cui si è voluto ignorare le criticità per anni salvo poi mettere una toppa forzatamente e con estrema urgenza nel corso dell’ultimo anno. Tali progressi però sembrano minacciati dai numeri nuovamente in crescita sul fronte dell’affollamento registrati dall’inizio dell’anno. Come denuncia la Ministra Cartabia il sovraffollamento ‘’torna a destare preoccupazione’’, dopo un anno in cui tra rivolte e contagi fuori controllo almeno questo dato aveva mostrato una incoraggiante flessione.

L’associazione Antigone da 30 anni si occupa di tutela dei diritti dei detenuti, pubblicando un rapporto annuale sullo stato complessivo del sistema penitenziario italiano. L’ultimo rapporto, pubblicato nel marzo di quest’anno, sottolinea come ‘’il sovraffollamento da condizione oggettiva di trattamento degradante è diventato anche questione di salute pubblica’’, nel corso dell’ultimo anno. Evidenzia come il tasso di sovraffollamento si attesti attorno al 115%, contro la capienza ufficiale regolamentare del 98%, considerata soglia da non superare. Alle prigioni italiane spetta da anni il triste primato di prigioni più sovraffollate dell’Unione Europea. Dall’inizio della pandemia timidi passi in avanti sono stati fatti in questo senso non solo in Italia, se si considera che il dato è stato in discesa in quasi tutti i paesi europei nel corso del 2020. Tuttavia il nostro sistema carcerario risente di molte altre problematiche, e in una certa misura la percezione e il sentire comune di noi italiani nei confronti del delicato tema della detenzione sono uno dei maggiori fattori e cause di arretratezza e inadeguatezza di un sistema che persegue il giustizialismo a furor di popolo piuttosto che il recupero e il reinserimento nella società di chi sbaglia.

Occorre fare i conti con questa oscura realtà: esiste una sostanziale distanza tra il ruolo che la nostra Costituzione attribuisce al carcere e ciò che noi cittadini ci aspettiamo dalle prigioni e dalla giustizia in generale. Ci aspettiamo in primis che il carcere punisca chi ha commesso un crimine. Tuttavia la nostra Costituzione afferma qualcosa di differente, mettendo in primissimo piano il ruolo rieducativo della pena finalizzato al reinserimento del detenuto nella società, come affermato dall’articolo 27. Dunque persegue un fine nobile come quello del recupero del reo, del tentativo di reinserimento nella società piuttosto che la mera punizione da infliggere per spirito di vendetta. Nel cortissimo articolo della Costituzione viene solamente specificato che ‘’Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’’.

E’ innegabile che una detenzione finalizzata solo a punire chi ha sbagliato, non comporta nulla che non sia appagamento del nostro personale senso di vendetta. Dal punto di vista dell’utilità sociale, l’effetto è esattamente deleterio per la società stessa: il sistema giudiziario italiano spedisce i criminali in pasto alle carceri, ambienti spietati e al limite della vivibilità, dove la dignità personale è offuscata e calpestata sistematicamente, e risputa fuori criminali ulteriormente incattiviti e più pericolosi di prima nei confronti della società. Come può funzionare un sistema che in ultimo luogo finisce per rialimentare ciò che dovrebbe prevenire, ossia il crimine?

I dati sono sempre la cartina tornasole per offrirci l’immagine nitida e aderente alla realtà di ogni cosa. E la realtà è incontrovertibile dati alla mano su questo punto: il tasso di recidiva dei detenuti italiani è pari al 70%, mentre per coloro che sono soggetti a misure alternative al carcere è solamente del 20%. Ciò significa che il 70% dei detenuti, una volta fuori tornano ben presto a delinquere. E significa che le misure alternative alla detenzione funzionano maggiormente come deterrente alla delinquenza. Quale immagine migliore e inconfutabile dell’inefficienza delle carceri italiane di questa?

Il confronto con gli altri paesi europei è impietoso, ed evidenzia il fatto che esistono modelli virtuosi e vincenti di detenzione, che privilegiando il reinserimento sociale e l’educazione del detenuto spezzano il circolo della delinquenza, restituendo persone compatibili con il resto della società e idonei a recuperare il loro ruolo perduto. In Norvegia, il sistema carcerario persegue in primo luogo la riabilitazione del detenuto, poi la sua educazione. L’intento è non solo restituire alla società un suo membro, ma restituirgli un membro socialmente utile, quindi in grado di riparare al crimine commesso attraverso il suo inserimento nell’ambiente lavorativo e nel tessuto sociale. Si è persino rilevato un aumento nel tasso di occupazione di quei detenuti che al momento del loro ingresso in carcere erano disoccupati. Dunque il carcere diventa luogo di apprendimento e formazione lavorativa e svolge un ruolo socialmente fondamentale, rappresentando per il detenuto in primis un’occasione per redimersi. Il modello norvegese rappresenta il modello vincente di detenzione, ma sarebbe difficilmente replicabile in altri contesti e difficilmente adattabile a differenti modelli culturali. Tuttavia anche qui i dati ci dicono che così il carcere funziona: il tasso di recidiva è di circa il 20%. L’ergastolo non è previsto, vista la sua evidente contraddizione con la funzione rieducativa della pena e la pena massima è di 21 anni.

Tornando con i piedi per terra alla dura realtà del carcere italiano non sorprende che il 2020 sia stato per le carceri e per i detenuti un anno di privazioni e limitazioni dei diritti, di violenza, di rivolte e di dignità calpestata. Il covid ha colpito duramente laddove non era possibile mantenere il distanziamento e rispettare le precauzioni necessarie al caso. Un sistema sull’orlo del collasso, pronto a esplodere negli episodi di violenza che si sono susseguiti ovunque all’interno delle carceri del nostro paese. L’episodio più ignobile e il culmine di tutto ciò è rappresentato dagli episodi di violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere accadute subito dopo l’inizio del lockdown: la dignità dei detenuti è stata calpestata, rivelando un contesto di violenza sistematica esistente in molte prigioni, che va a sommarsi alle già difficili condizioni che il sistema penitenziario riserva ogni giorno ai nostri detenuti.

Lo Stato ha dimostrato ancora una volta di voler rispondere alle proteste e alle sommosse dei detenuti – lecite o ingiuste che siano- con la violenza e la rappresaglia, ponendosi sullo stesso piano di quei criminali che dovrebbe tentare di recuperare e che invece punisce sapendo ricorrere solo alla violenza e alla brutalizzazione. Le immagini restituiscono la fotografia di una realtà dura da accettare e soprattutto dura da vivere per chi si trova a doverla affrontare in prima persona. E’ veramente arrivato il momento di riformare completamente il nostro sistema detentivo, ripensando ai valori e i principi che dovrebbero ispirare la giustizia e che invece oggi perseguono solo la vendetta e la punizione.

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